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Non è un premio in quanto non premia nessuno, anzi al contrario premia 'tutti', e non è tanto o soltanto un Festival poiché è qualcosa di più, se vogliamo, è un incontro, talora solo sperato, talora atteso, con la Nuova Drammaturgia in una sorta di

immersione che non disperde, come potrebbe sembrare, ma amplifica le sensazioni che rimbombano e reciprocamente si rinforzano come le onde di uno stagno in cui è stato lanciato un sasso.
Ogni incontro, come ogni appuntamento che si rispetti, ha bisogno di un luogo, in questo caso Forlì ed il suo habitat prossimo e condiviso, che non può e non deve essere solo geografico ma deve diventare innanzitutto psicologico, nella concreta virtualità che hanno i sentimenti quando vengono messi in circolazione, una casa in fondo, popolata di passato, di presente e di futuro come tutte le case; un po' come la nostra rivista Dramma.it, da oltre vent'anni la casa aperta della drammaturgia contemporanea italiana.
In questa prima edizione (dell'edizione 'zero' avevamo a suo tempo dato conto) si è respirata dunque, in spazio e tempo, una atmosfera a molti familiare, quel qualcosa che ci prende senza malinconia soprattutto quando possiamo dimenticare la competizione e il capitale, perchè consente un contatto raro soprattutto con sé stessi.
Una casa ma, come detto, una casa aperta come una vetrina luminosa predisposta in anticipo per feste ancora da venire. Poi chi vorrà servirsi di quella vetrina, lo farà e il mondo del teatro potrà accorgersi di nuovo di sé stesso, mentre i suoi ingranaggi riprendono a macinare il tempo da investire nelle varie 'Stagioni'.
Una immersione nella drammaturgia, nel teatro scritto per essere visto e udito, ulteriormente illuminata dall'interessante momento di riflessione stimolato e, per così dire, garantito da Renata M. Molinari, e non si offenda la studiosa  per la citazione un po' commerciale che l'idea della vetrina mi ha ispirato.
“I Mestieri del Teatro” sono stati una sorta di dialogante lavoro sulla forma o sulle forme, tra scrittura e messa in scena, in cui può incanalarsi e trovare accoglienza la creatività che al teatro si ispira e che il Teatro richiama, forma e forme di un essere insieme fatto di competenze e funzioni, di artigianato e di utopie estetiche, che la dramaturg Molinari ha studiato, sviluppato e anche praticato costituendosi in una esperienza così messa a disposizione di molti, e soprattutto abbastanza rara in Italia.
Una esperienza, tra l'altro, che ha trovato anch'essa una sua casa, “La Bottega dello sguardo” in Bagnacavallo, biblioteca e libreria di incontri e condivisione, una fucina di nuovi interessi e di rinnovati dialoghi con il mondo della cultura non solo teatrale.
Eppure in tutto questo mai è mancato il piacevole respiro della condivisione senza affanno di un programma vasto (ben 19 spettacoli di cui 10 in anteprima e prima nazionale in 4 giorni) e molto accurato, un profilo del nuovo 'dramma' oggi, frutto di una selezione attenta e approfondita che ha richiesto il tempo necessario.
Non potendo parlare di tutti in questo mio breve diario, ho scelto, di scrivere di 6 spettacoli che mi sono apparsi in qualche modo esemplari della natura complessiva di questo evento.

COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA RUSSIA / Teodoro Bonci del Bene
Come cambia o, meglio, cosa cambia dell'Arte quando è vista da un punto di vista eterodosso se non quasi eretico nei tempi di oggi, in cui l'Occidente si culla nell'illusione di una creatività senza limitazioni e censure (che però ci sono e sono pesanti anche se quasi invisibili). Questa drammaturgia solitaria, fatta eccezione per la ormai consueta finestra video sul mondo che passa,  tenta di capirlo a partire dalla Russia assunta esperenzialmente e vissuta esistenzialmente, fissata in vari scatti fotografici del 2004. Un racconto che è un mosaico nella cornice di una Icona senza tempo, mescolando frammenti e sperando si compongano dentro la nostalgia della poesia di Aleksander Pushkin, una poesia che in qualche modo richiama il tema dell'esilio. Storie di artisti e di arte perseguitati, di cui la chiave comico-grottesca utilizzata enfatizza i tratti tragici, una persecuzione che deforma l'espressione artistica costringendola quasi al grido scomposto in cui articolare la propria pro-attiva paura. E in qualche modo genera quella confusione che sembra perseguitare la pur sempre lucida analisi di molti drammaturghi della nuova generazione. Non una confusione, dunque, che è nell'artista e nella sua arte, quanto nel mondo che attraverso quegli artisti e la loro arte preme per esprimersi. Un monologo che ci chiama e ci richiama, drammaturgicamente ben articolato e che precipita su se stesso per cercare la fuga verso l'altro. Efficace anche nella sua ombrosa (pure in senso psicologico forse) scenografia.
Di e con Teodoro Bonci Del Bene, aiuto regia e aiuto drammaturgia Francesca Gabucci, costumi Medina Mekhtieva, video Vladimir Bertozzi, foto di scena e locandina Federico Pitto, grafica Claudio Fabbro, produzione Accademia Perduta/Romagna Teatri, si ringraziano Andrea Dok Ceccarelli, Marco Mantovani, e Letizia Quintavalla per la collaborazione artistica

ODRADEK / Menoventi
Drammaturgicamente ispirato agli scritti di Gunther Anders e di Franz Kafka, più che una fiaba ricorda la fantasia distopica di tanti racconti S.F. di Philip K. Dick, e in questo ci suggerisce anche una delle prime drammaturgie di Marco Martinelli e delle Albe (allora Albe di Verhaeren) quel “Effetti Rushmore”, che credo qualcuno ricorderà, e appunto ispirato al romanziere americano. Distopico, come noto, immagina un futuro possibile (probabile) a partire dalle tendenze del presente, ma questo spettacolo è già una immagine del nostro presente, anzi del presente della nostra solitudine esistenziale, cosi piena del nulla che naviga nella rete. Come la moglie del protagonista del bellissimo “Fahrenheit 451” di Bradbury/Truffaut, per restare in tema, imprigionata nelle luci e nei suoni che la circondano, così la nostra protagonista vive 'solamente' dentro la sua casa, mentre ciò che accade fuori (il lavoro, la vita sociale) quasi non esiste, anzi non esiste proprio in realtà e come realtà. Unico contatto, in un mondo di riders e take away, nel mondo di Amazon, il corriere “Q” della “onnipresente” Odradek, nome significativamente ispirato all'oggetto misterioso del kafkiano “Un medico di Campagna”. Il tramite sono i numerosi oggetti che il corriere consegna, da un certo punto in poi anche senza ordinazione quasi fossero suoi messaggi/regalo che si possono sempre rifiutare ma che mai la donna rifiuta. È come si fosse aperto un canale a ciò che sembrava essersi perduto, un sentimento, il sentimento reciproco che solo consente di riconoscere e di riconoscersi. Una lampadina guasta che non vuole essere sostituita smaschera il gioco restituendo all'immaginazione ciò che era stato sottratto dalla illusione. Un lavoro frutto di una grande qualità di scrittura, in cui si addensano suggestioni innumerevoli e quasi assordanti rimbombi, a rivendicare una vita che da qualche parte dovrà pure 'esserci'. Consuelo Battiston e Gianni Farina danno un ottima prova delle loro capacità, contribuendo non poco alla riuscita scenica della drammaturgia che si caricano sulle spalle.
Da un’idea di Consuelo Battiston e Gianni Farina, con Consuelo Battiston e Francesco Pennacchia, drammaturgia, regia e luci Gianni Farina, musiche e sound design Andrea Gianessi, scene Andrea Montesi e Gianni Farina, con la consulenza di Enrico Isola e Daniele Torcellini, costumi Consuelo Battiston e Elisa Alberghi, voci Tamara Balducci, Leonardo Bianconi, Maria Donnoli, Chiara Lagani, produzione Menoventi/E Production, Ravenna Festival, Accademia Perduta/Romagna Teatri, OperaEstate Festival Veneto/CSC, in collaborazione con Masque Teatro

IO CHE AMO SOLO TE / Bluestocking
Uno dei meriti di questa scrittura, a mio parere, è di non essere un semplice racconto di 'genere' o fuori-genere. È un racconto di vita vissuta attraverso un sentimento quando questo sentimento si scontra con le convenzioni e la rigida cattiveria della Società. Un uomo maturo quando lascia la moglie per riconoscere la propria omosessualità negata, ha l'occasione di ricordare il primo (e unico) amore della sua vita, l'amico di adolescenza con il quale l'amicale complicità si rivelò amore reciproco. Ma la reazione sociale, che lo ha imprigionato, lo ha condotto a rinnegare con violenza quel legame fino all'esito tragico. Tutto molto semplice, ma proprio questa semplicità senza scomodare Shakespeare, la semplicità dei sentimenti quando sono autentici, si rivela assai più illuminante di tante analisi razionali o di tanti tributi più trascendenti o trascendentali solo per istoriare il vuoto che nascondono. Una bella drammaturgia, profonda più di quanto è la sua apparenza, ben messa in scena e in cui gli attori, soprattutto i due giovanissimi Riccardo D'Alessandro e Andrea Lintozzi, mostrano quella spontaneità che è già sintomo di una forte vocazione.
Di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli, con Riccardo D’Alessandro, Alessandro Di Marco, Andrea Lintozzi, scene e costumi Nicola Civinini, aiuto regia Guido Del Vento, light design Sirio Lupaioli, foto Marcella Cistola e Simona Casadei, regia Alessandro Di Marco, produzione Bluestocking e Società per Attori

ALBUM / Kepler-452
Memoria e identità nel loro rapporto inevitabile e spesso inestricabile. Questo spettacolo dei bolognesi Kepler-452 ci mostra come l'intuizione proustiana del tempo perduto sia vicina a noi, o dentro di noi, assai più di quanto vogliamo immaginare o riconoscere. A chi non è capitato di svuotare una casa che l'ha in qualche modo coinvolto, quella 'di famiglia' in particolare? A pochi, credo, e come quella casa anche il mondo che viviamo, e in ogni momento perdiamo, è sempre il confine mutevole di quell'album di ricordi che è la nostra esperienza. Identità singola e identità collettive comunque sovrapposte, nel gesto comune di sfogliare vecchie e nuove fotografie, linee interrotte di un flusso di immagini che scorrono perenni. Siamo così condotti in una sorta di 'camera' oscura che si illumina di lampi e siamo inevitabilmente coinvolti in un processo di auto-conoscenza attraverso il ricordo, di cui l'Alzheimer, buttato sulla scena come 'lo' scandalo che ci insegue, è la terribile controprova della inesistenza di identità senza memoria. Un flash back di cui le anguille sono metafora nel loro continuo ritrovarsi percorrendo migliaia di chilometri sul fondo degli oceani. Non restiamo indifferenti, né il drammaturgo in scena Nicola Borghesi, ben collaborato da Riccardo Tabilio, ce lo consente, stimolando con interventi diretti la nostra inquietudine e anche la nostra insicurezza. Spettacolo di grande qualità, talora urticante, dalla singolare e mobile impostazione scenica che ne arrichisce il senso, e ove ancora una volta la semplicità è veicolo di profondità.
A cura di Kepler-452 (Nicola Borghesi e Enrico Baraldi), in scena Nicola Borghesi, con la collaborazione di Riccardo Tabilio, ideazione tecnica Andrea Bovaia, coordinamento Roberta Gabriele. Progetto vincitore del bando Daily Bread nell’ambito del progetto europeo Stronger Peripheries: a Southern Coalition, in coproduzione con Pergine Festival, Pro Progressione e L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, con il sostegno di IntercettAzioni - Centro di Residenza Artistica della Lombardia e Residenza Artisti nei Territori Masque Teatro

DIECI MODI PER MORIRE FELICI /Associazione teatrale Autori vivi
“L'universo come giuoco” di Alessandro Fersen ovvero “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Arthur Schopenhauer, o forse tutti e due, ritornando da così lontano, in questo singolare spettacolo ideato e diretto da Emanuele Aldrovandi recente vincitore del Premio Hystrio alla drammaturgia, che con una certa intelligenza mescola appunto, ma anche fa conflagrare, gioco e rappresentazione scenica. Anche perchè, paradossalmente, il gioco (da quello infantile a quello d'azzardo, da quello da indagine psicologica a quello di ruolo) pur affidandosi al caso non è mai casuale, essendo più spesso causale in quanto ha indubbiamente effetti e conseguenze. In fondo la vita è essa stessa un pianeta(palcoscenico) lontano in cui cerchiamo di salvarci rappresentandoci, scegliendo tra molte o più spesso limitate opzioni, qualche volta con kierkegardiana consapevolezza più spesso senza sapere. Abbiamo tutti un numero e aspettiamo di essere estratti per entrare nel gioco vita, occhieggiando a mondi paralleli che coesistono e coesisteranno comunque indipendentemente dalla nostra scelta anche se ciascuno di noi ne sarà segnato. Un gioco, una rappresentazione, comunque qualcosa che proprio per essere un gioco e una rappresentazione ci prende nella sua rete di possibilità da cui seleziona, siano piccole o grosse le sue maglie, ciò che saremo e sarà di noi, intercettando sottilmente quello che siamo. Un esperimento scenico che forse, nel tempo, potrà mostrare limiti di riproponibilità, ma un esperimento efficace e anche giusto. Uno spettacolo in fondo che riesce a trasfigurare efficacemente in dramma scenico quel filo narrativo (il se avessi o non avessi preso quella strada) che soprattutto il cinema ha fatto spesso suo. La scrittura è abile a farsi essa stessa opzione a disposizione, e Luca Mamoli è bravo a guidarla come buon timoniere del suo capitàno.
PRIMA NAZIONALE (un gioco-spettacolo), ideazione e regia Emanuele Aldrovandi, con Luca Mammoli, drammaturgia Emanuele Aldrovandi e Jacopo Giacomoni, scenografia Francesco Fassone, collaborazione alla realizzazione scenografia Jessica Koba, costumi Costanza Maramotti,
collaborazione alla realizzazione costumi Nuvia Valestri, musiche Riccardo Tesorini, grafiche Lucia Catellani, produzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Associazione teatrale Autori Vivi

BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO. NOI SOLI PENSIAMO ALLA MORTE E AL SESSO /Gruppo della Creta
Come improvvisamente scoprire che la nostra modernità è molto antica se non addirittura ormai vecchia, perché in fondo non fa che cercare di realizzare intuizioni che il tempo ci ha tramandato, in un filo che lega il sueño di Calderon alla visionarietà di Borges e di Juan Rodolfo Wilcock o, con più dolore, al profetizzare di Pier Paolo Pasolini, che questa ordinatamente confusa e razionalmente assurda drammaturgia hanno in qualche modo ispirato. Meta-Verso, Intelligenza Artificiale, Connessione stabile e perenne, in effetti vorrebbero costruire e squadernarci con l'occhio della virtualità la nostra vita, se accettassimo di trasformarla in sogno (o forse in incubo). Stiamo ancora aspettando Godot e con noi i surreali, ma quanto realistici, attori in scena, che si arrovellano per dare, al contrario di Beckett dallo sguardo freddo e razionale, una forma assurda al suo contenuto assurdo, chissà sperando che gli opposti finalmente si incontrino e così si annullino. Corrono, pensano, saltano, guardano, si inciampano come tutti noi nella vita, quasi ad imporci di sottrarla alle sue derive per aggrapparsi ad essa. Poi il caos, la via per un universo ancora sconosciuto. La drammaturgia a sei mani è efficace come la regia e la  messa in scena, apprezzabile la recitazione degli attori del gruppo.
PRIMA NAZIONALE. Tratto dalle opere di Juan Rodolfo Wilcock, drammaturgia Tommaso Cardelli, Aless andro Di Murro, Tommaso Emiliani, regia di Alessandro Di Murro, con gli attori del Gruppo della Creta, scene Paola Castrignanò, costumi Giulia Barcaroli, assistente alla regia Ilaria Iuozzo, produzione Gruppo della Creta, Fattore K, con il patrocinio della Casa Argentina en Roma e con il sostegno di Teatro del Loto e Teatro Basilica.

Nel complesso interessanti esempi di come si possa creativamente rinnovare il teatro rispettandone i migliori canoni.