Credo sia abbastanza scontato, ma vero, scrivere che il “Premio Riccione”, promosso dalla omonima Associazione Culturale diretta da Simone Bruscia, è una tra le più importanti, e più attese, ribalte del Teatro italiano, in particolare per quanto
riguarda la drammaturgia come scrittura anche letteraria ma vocata ed esposta alla scena.
È d'altra parte il naturale esito non solo di una ormai lunga tradizione, che dalla pagina scritta lo ha visto sempre più sbilanciarsi, quasi per propria forza gravitazionale, verso la messa in scena della parola, nei moltissimi modi in cui questo può essere fatto, ma sempre preservandone quella specifica funzione che al significato intrinseco abbina l'espressione vocale che lo approfondisce o, molto spesso, lo trasfigura per meglio significarlo.
Comunque è una coincidenza altrettanto significativa che abbia avuto luogo, quasi in forma di 'summa', nei paraggi e in tempi appena successivi al Festival “Colpi di Scena” (che premi non attribuisce) che proprio della drammaturgia contemporanea è vetrina rara, o una casa l'ho definita come la nostra rivista Dramma.it che di Riccione è media partner, ovvero anche al Festival/Premio Hystrio.
Altrove, anche su questo sito, sono riportate tutte le notizie per così dire di cronaca, dai membri della giuria alle 10 opere selezionate, tra ben 656 pervenute alla chiamata, per partecipare alla finale e infine ai partecipanti stessi.
A me, invece, un tentativo di analisi estetica delle tre opere vincitrici (il 4° premio per “L'innovazione drammaturgica” andato a Marco D'Agostin è alla carriera), e attraverso di queste, anche di chi premio non ha avuto, che dia conto dell'esito e del significato complessivo del Premio, un significato che in un certo senso prescinde dalle singole opere finaliste anche se di queste non può fare a meno.
Questo perchè, soprattutto nello specifico caso, attraverso le opere presentate, finaliste e premiate passa una idea di teatro, una idea del Teatro che, particolarmente di questi tempi, necessita di essere posta alla attenzione dei più.
Dunque, ecco tre brevi appunti.
LUCIA CAMMINAVA SOLA / Tolja Djokovic
Un testo che è uno straordinario collage di linguaggi e di argomenti, di forme espressive e di sostanza narrativa, quasi tentando di trasformare nell'atto della parola scritta la potenza del pensiero, anzi del sentimento che in entrambi è custodito. È un opera di invenzione costruita destrutturando un'evento storico (nel suo contenuto) ed è anche, nella sua dimensione formale e linguistica, una sorta di sceneggiatura cinematografica che mappa il montaggio drammaturgico, utilizzando in maniera inconsueta ma funzionale la sintassi meta-teatrale (o meta-cinematografica). Ma tutto questo senza essere banalmente autorefenziale, ma bensì diventando utile a meglio penetrare i contenuti narrativi, quasi storico-documentari, per accogliere il giudizio, per cercare la ribellione del sentimento rispetto alla tragica follia delle convenzioni. Così l'antica storia di uno stupro e della condanna, dai tratti grotteschi e insieme insostenibili, per infanticidio di una giovane donna bolognese del 700 può diventare l'occasione di dare slancio universale ad un particolare, quello sociologico e politico attuale, che sembra ripiegare su una sterile condanna che è stanca reiterazione. Si leggono infine in questa scrittura grandi potenzialità di trascrizione scenica, in cui, al di là dell'ormai consueto utilizzo del Video, la stessa dissociazione temporale, così manipolata, produce un effetto di amplificazione di quella sorta di guardonismo della violenza tipico dei media attuali capaci di enfatizzare ciò che comunque abbiamo socialmente ereditato (si pensi al 'successo' storico delle esecuzioni pubbliche). Un guardonismo reiterativo che ottunde la percezione della violenza stessa, quasi derubricata a consuetudine che l'arte scenica è però in grado di svelare, grazie ad una costruzione a mosaico che integra ciò che è allontanato rendendolo intimamente perspicuo. Una scrittura di grande impatto, meritevole vincitrice del 57° Premio Riccione per il teatro 2023.
30 MILLIGRAMMI DI ULIPRISTAL / Benedetta Pigoni
La vicenda raccontata è, purtroppo, di piena e ripetuta attualità, ma ciò che colpisce di questo testo è che non è un testo, non è in senso lato una scrittura scenica, è piuttosto un collage da un altro mondo, il mondo in cui la parola è un bip e poiché la forma è sostanza o, come direbbe Umberto Eco, il medium è messaggio, ciò che quel bip produce sullo schermo di uno smartphone non è la stessa parola che qualcuno lontano ci ha scritto distrattamente, ma è qualcos'altro, è distorta quasi avesse perso per strada, diventando da reale a virtuale, quel poco di sentimento sincero che l'aveva prodotta. Così, in questo mondo distorto e fatto di solitudini che non si incontrano (se non ubriachissime parrebbe) fatica a precipitare anche la tragedia di uno stupro di gruppo che sembra, in fondo, potersi risolvere collegandosi all'apposita app, sempre pronta. Cosa rimane di quell'impasto di dolori e gioie che costituisce l'umanità dell'uomo e della donna? Non è carico di speranza questo testo, e disilluso confida in una tardiva resipiscenza accompagnata da una canzone (da app. ovviamente) di Elvis Presley. Fa pensare un po' la solo apparente assenza di orrore in tutta la trama, l'orrore della violenza subita e praticata, quasi che l'utilizzo del linguaggio che usa fosse per la drammaturga necessario, come l'alcol lo sembra per quelle esistenze incerte, per intuitivamente difendersi, ma insieme per rendere percepibile e comunicabile, per rendere cioè presente, singolarmente e collettivamente, proprio quel dolore che sembra assente. Giovanissima autrice con notevoli prospettive. Vincitrice del Premio Riccione "Pier Vittorio Tondelli" under 30.
È SOLO UN LUNGO TRAMONTO / Jacopo Giacomoni
Linguisticamente parlando ricorda il joyciano flusso di parole che rompe ogni argine sintattico e di punteggiatura e così producendo un effetto distonico/dissociativo che libera, come le acque di un fiume carsico, il senso perduto del racconto. Però qui diventa paradossalmente una forma presa in prestito dalla virtualità di un computer che attraverso la funzione di registrazione accoglie, e inevitabilmente trasforma, il racconto al figlio di un padre sulla via dell'Halzeimer. È un tentativo, forse un po' distante e razionalizzante che affida ad un meccanismo ciò che il nostro cuore non è in grado di produrre e sostenere, un tentativo di dare ordine a un mondo che lo ha perso, soprattutto perché lo abbiamo perso noi, incapaci ormai di produrne uno coerente. Eppure, e non è un paradosso, dentro questo meccanismo si produce una sorta di recupero, di attento restauro di un sentimento, di una affettività reciproca che l'ironia del racconto mediato dalla madre rende palese e contestuale al doloroso percorso della progressiva perdita. Una scrittura interessante. Menzione speciale “Franco Quadri”.
Un tratto comune, di questi e anche di altri testi, oltre che l'attenzione alla donna, al suo essere cartina al tornasole, che sia madre, compagna o anche solo individuo, del disagio di un oggi e di una generazione, oltre i suoi riscontri sociologici, nonché alle relazioni (perdute), sembra essere la difficoltà ad inquadrare la realtà, intima od esterna, con sguardo estetico e per il tramite della sola parola, esprimendo quindi quasi la necessità di trovare un mediatore che ci offra quelle garanzie che non abbiamo o in cui non crediamo più.