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Sono passati quasi quarant’anni da quell’evento che non soltanto fece tristemente conoscere in tutto il mondo una remota località dell’Ucraina – allora ancora parte dell’URSS -; ma, soprattutto, costrinse a interrogarsi concretamente sulla sicurezza

degli impianti per la produzione di energia nucleare. In quell’aprile 1986 apparentemente nessuno avrebbe potuto prevedere un incidente nella centrale atomica Lenin di Černobyl, neanche il suo direttore, Viktor Brjuchanov. E proprio quest’ultimo è il protagonista del nuovo testo scritto da Federico Bellini – storico collaboratore del regista Antonio Latella – e messo in scena da Michele Sinisi contando su un cast inventivamente ed efficacemente coeso, con alcuni interpreti impegnati in più parti. 
Un lavoro che dichiara immediatamente il proprio programmatico anti-realismo: Bellini non è interessato a ricostruire storicamente i fatti secondo il modello del teatro di narrazione “civile” così com’è stato plasmato da Marco Paolini o Marco Baliani; bensì mira a costruire sul palcoscenico un micro-cosmo evidentemente surreale e nondimeno incisivo nello scontornare tematiche universalmente pulsanti. Gli spettatori vengono accompagnati nella mente inquieta di Brjuchanov e invitati a condividerne gli incubi, abitati da spettri più o meno noti. Ci sono Legasov, lo scienziato cui il governo sovietico vietò di rivelare pubblicamente i risultati della propria indagine sulla gestione della centrale, e persino il premio Nobel per la fisica Sacharov, che chiese invano a Gorbaĉëv di rendere note al proprio popolo le omissioni del potere centrale rispetto a quanto accadde a Černobyl. Ma ci sono anche la tormentata moglie di Brjuchanov, due militari addetti alla sicurezza della centrale, una donna del popolo – una sorta di babushka, un po’ strega e un po’ dolente Cassandra – e loquaci incarnazioni del comunismo oramai ridotto in macerie. Bellini, non a caso, instaura un convincente parallelismo fra la tragedia di Černobyl e la caduta dell’URSS, che sarebbe avvenuta pochissimi anni dopo. Il tentativo di minimizzare l’immane disastro della centrale appare, così, l’estremo, disperato e vano tentativo di celare il contemporaneo disgregarsi del regime comunista, come ben sintetizza quel sipario frutto dell’originale contaminazione di cabaret brechtiano e moderno rap che introduce la parte finale dello spettacolo. La tonalità fino a questo punto oscuramente onirica, vagamente espressionistica e, allo stesso tempo, attraversata da suggestioni da certi film di fantascienza pensosi ed esistenzialisticamente inquieti, vira verso un grottesco quasi espressionistico, puntellato da sapiente e amara ironia. È evidente, dunque, quanto la scrittura di Bellini si sia, più o meno consapevolmente ed esplicitamente, nutrita di letteratura russa e slava, dai classici ottocenteschi all’imprescindibile Svetlana Aleksieviĉ di Preghiera per Černobyl – ma anche di Tempo di seconda mano, lucido reportage-riflessione sulla caduta del comunismo – fino al polacco Stanislav Lem, con la sua fantascienza metafisica di Solaris e Stalker… Un sostrato denso ed eterogeneo che è solida impalcatura di uno spettacolo ipnotico e concentrato, diretto con mano ferma da Michele Sinisi e arricchito da un’avvolgente e pregnante scenografia che è essa stessa sonora drammaturgia – una complessa struttura di sfere riflettenti, a suggerire tanto la struttura dell’atomo quanto l’intricato inconscio del protagonista.  

Testo di Federico Bellini. Regia di Michele Sinisi. Scene di Federico Biancalani. Costumi di Cloe Tommasin. Disegno luci di Luigi Biondi. Tecnica di Ornella Banfi. Con Stefano Braschi, Federica Fabiani, Giovanni Longhin, Donato Paternoster, Isabella Perego, Marco Ripoldi, Adele Tirante. Prod.: Elsinor Centro di Produzione Teatrale.
Visto al Teatro Fontana di Milano il 5 novembre 2023

Foto di Marcella Foccardi