Quando un artista muore si usa dire che di lui resteranno per sempre le sue opere, ed è giusto e anche vero. Ma quando questo artista è un uomo di e del teatro questa verità è un po' meno 'vera' perchè siamo privati della sua 'presenza', cioè di
ciò che è unica e particolare modalità estetica del teatro (e che i moderni mezzi tecnici surrogano ma non possono sostituire), il vedere sulla scena quel corpo che si muove e sentire, vedendolo, quella voce che recita e intona il sentimento del vivere. Enzo Moscato rappresenta con la sua generazione, con Leo De Berardinis tra tutti, e con la generazione immediatamente successiva, quella di Annibale Ruccello e poi, attorialmente parlando, di Arturo Cirillo, il salto che la tradizione del teatro napoletano del '900, Eduardo e il suo mondo per dirlo in una sola parola, fa nella modernità. Un salto stra-ordinario, inattuale quasi, poiché non è mai tradimento ma espressione nuova che ne distilla i valori profondi e li incarna nel nuovo che la storia propone e impone. Un rinnovamento che deve tra l'altro combattere una certa tendenza della cultura di oggi a ridurre quel teatro al localismo e a imprigionarlo nel dialettismo per toglierle lo spazio più ampio che merita. Invece quella di Moscato e del suo teatro si è dimostrata una lingua, con il retroterra mentale e sentimentale che ogni lingua porta con sé, soprattutto perchè capace di metamorfosi e di confronto anche violento con i suoni e i fonemi che la circondano, così da renderli più significanti. Chi sia stato, anzi chi sia Enzo Moscato è noto, e conosciuta è la sua drammaturgia e la sua attività teatrale. Mancherà alla scena italiana ed europea, non solo a quella partenopea che ha creato lui e che lui ha cambiato. Lo ricorderemo con nostalgia.