Un anno dopo, e sempre per iniziativa del Teatro Akropolis a conclusione del suo festival-percorso “Testimonianze ricerca azioni”, torna a Genova il Workcenter con “I am America”, già recensito nel 2010, al teatro Akropolis mercoledì 4 maggio, “Not history's bones – A poetry concert” a Chiavari venerdì 6 maggio e con “The Living Room” il 7 e 8 maggio a Palazzo Ducale.
In attesa di assistere all'ultimo spettacolo previsto che vede protagonista e drammaturgo Thomas Richards, vorrei qui soffermarmi sul cammino coinvolgente che, a partire dall'insegnamento di Grotowski, sta compiendo Marco Biagini, e insieme a lui i bravissimi attori del suo gruppo, con I am America e Not History's bones, due dei tre spettacoli, che sia per materia per così dire 'manipolata' che per utilizzo assai singolare dei diversi segni drammaturgici, si amalgamano, credo, in una unica direzione di senso. Sviluppati entrambi, per la regia di Mario Biagini, a partire dai testi poetici di Allen Ginsberg e con le musiche dello stesso Open Program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards vedono in scena Itahisa Borges-Méndez, Lloyd Bricken, Cinzia Cigna, Davide Curzio, Marina Gregory, Timothy Hopfner, Agnieszka Kazimierska, Felicita Marcelli, Alejandro Tomás Rodriguez, Chrystèle Saint-Louis Augustin. È un cammino, quello del gruppo e del suo drammaturgo, cionvolgente come detto ed insieme 'ingenuamente', per quanto di ingenuo vi è nella sincerità, ovvero 'crudelmente', per quant'altro di crudele vi è nella stessa sincerità come ci insegna Artaud, spiazzante e disvelatorio, soprattutto in quanto, a mio modo di vedere, riguarda sia, da una parte, l'aspetto per così dire interno del fare teatro, i suoi meccanismi drammaturgici e di recitazione, le sue relazioni segniche e sintattiche, i suoi movimenti significativi, sia, dall'altra, i suoi aspetti esterni nel senso delle sue relazioni con lo spettatore e soprattutto con la comunità, con la 'polis' in sostanza. Sono drammaturgie in effetti, per quanto riguarda il primo aspetto, che utilizzano e manipolano segni, simboli e sintassi del comunicare piegandoli innanzitutto ad una esigenza di disvelamento interiore dell'attore in scena e che, proprio per questo, riescono paradossalmente, nella sincerità singolare della prestazione scenica, nel qui e ora dello spettacolo, a farli portatori di una verità collettivamente utilizzabile, che ci accomuna perchè ci consente a nostra volta un processo di disvelamento, talora faticoso, ma sempre con un contenuto di gioia che richiama, alla sua radice, il senso di liberazione che del teatro, già dalla possessione dionisica, costituisce l'ineludibile radice, anche quando è pervicamente dimenticata o negata. Vi è, di questo, in entrambi gli spettacoli un segno che lo conferma ed è quello che vede gli attori in scena esprimere ciascuno una singolare differenza, una specificità soggettiva e unica di gesti ed espressioni, in un contesto però di condivisione significativa che rende queste differenze non ostacoli ma bensì veicoli di conoscenza e comunicazione. Da qui il secondo aspetto di questo cammino, la ricerca, o meglio l'offerta di una relazione feconda con il pubblico, con la comunità che circonda il teatro, l'elaborazione di una risposta ad una domanda di sincerità anche laddove questa domanda non è consapevole o consapevolmente elaborata, aspetto che nella singolare giornata di Chiavari mostra la sua cifra specifica nella ricerca di luoghi, tra improbabili ed inattuali, in cui seminare questa relazione. D'altra parte, “evangelicamente” se vogliamo, la parola del teatro per essere veramente efficace dovrebbe appunto essere portata anche laddove non vi sono orecchie per ascoltarla, o meglio dove queste orecchie sono assopite in una sordità culturale che non è mai naturale o insuperabile, ma talora imposta e talora accettata per subordinazione o comodità. Come a questo punto non ricordare ancora una volta Antonin Artaud per il quale il teatro doveva scuotere l'ignoranza e la bugia in cui è immerso anche il suo pubblico, doveva produrre gioia e liberazione attraverso la 'crudele' consapevolezza e conoscenza di noi stessi, compito di cui il teatro, appunto e forse unica tra le arti, possedeva sin dalle origini gli strumenti e doveva re-imparare ad usarli.
È giusto, per questo, citare le sue stesse parole: “Perchè il problema non è stabilire se nei momenti estremi l'azione sia azione <<dai piedi alla testa>>, come diresti tu, lo è senza dubbio; il problema è se possiamo accettare che esistano momenti che non sono momenti estremi. Io credo che ogni momento di vita è un momento di prova, altrimenti è un momento di morte.” Il tentativo è stato fatto portando, in un venerdì sera tradizionalmente dedicato allo svago 'borghese', lo spettacolo in una sala di Chiavari, da tempo inutilizzata, e strutturata quasi a “sala da ballo” con bar e musica registrata, e così offrendolo anche a chi, sino ad allora, lo ignorava e magari intendeva continuare a ignorarlo. In metafora il Workcenter sperimentava la sua capacità di esplorare anche le zone più oscure e lontane di un pubblico inteso quasi come corpo collettivo, di cui interessare non solo le parti più prossime e attente, che circondavano il palco, ma anche quelle più lontane affondate, spesso pervicacemente ed anche aggressivamente, nel loro disinteresse. Compito non facile, quello di Biagini e dei suoi attori, ma portato avanti con forza ed anche abilità, e compito attraverso il quale, credo, le qualità recitative, drammaturgiche, disvelatorie e comunicative del gruppo si sono dispiegate con più chiarezza ed efficacia anche rispetto allo spettacolo I am America, più tradizionalmente condotto tra le mura del teatro Akropolis. E risultato a mio avviso efficace sia per l'intensità che ha sprigionato e di cui hanno immediatamente beneficiato gli spettatori più attenti, sia perchè è stata una tappa importante di quel cammino intrapreso da Biagini, di cui parlavo all'inizio, in direzione anche della crescita del suo gruppo, sia, infine, perchè ha gettato un seme, e i semi a volte danno frutto.