É tratto da un’opera di Maurizio Cattelan – uno scoiattolo col corpo accasciato fra una sedia e un tavolo di formica giallo, sullo sfondo un lavello – il titolo del testo composto da Francesco Alberici nell’ambito dell’École des Maîtres 2020/21, annualità
“pandemica” diretta dal drammaturgo Davide Carnevali, e successivamente scelto fra i finalisti della 56a edizione del Premio Riccione per il Teatro. Quello scoiattolo, stremato, è diventato per l’autore – milanese, anche attore e regista – l’emblema di un certo modo – più o meno desiderato e/o combattuto – di condurre la propria esistenza, a partire dalle scelte lavorative. Il tema più evidente dello spettacolo creato da Alberici con la fondamentale collaborazione dei propri attori è, infatti, proprio il lavoro: Pietro, il fratello dell’autore – che qui si chiama Daniele – è stato licenziato dalla grande multinazionale da cui era stato assunto dopo la laurea in statistica, percorso di studio intrapreso dopo avere rinunciato a perfezionare la propria passione per il pianoforte e, in generale, per la musica. La denuncia delle storture del mondo del lavoro contemporaneo – accento posto sulla “performance”, pratiche di mobbing neanche troppo velate, proditoria promessa di valorizzazione delle qualità personali – non è tuttavia che uno dei motivi di uno spettacolo che riflette anche sul presunto “diritto” dell’arte a raccontare vite di cui, in verità, non conosce che la sottile patina esteriore e che, dunque, s’interroga insieme al pubblico sullo scivoloso concetto di “verità”. Non a caso la messinscena è costruita su un vertiginoso scambio di ruoli: nella prima parte Francesco interpreta Pietro e affida a Daniele Turconi il ruolo dell’autore per poi rivestire questi stessi panni nel secondo atto, quando il fratello Pietro – Salvatore Aronica – sale sul palcoscenico. C’è poi la mamma – Maria Ariis – che è anche quella “madre”, putativa e non meno esigente e dittatoriale di quella naturale, che è l’azienda. E c’è l’avvocato - Andrea Narsi - incaricato da Pietro di rappresentarlo nella causa intentata all’azienda. Personaggi la cui identità, tutt’altro che granitica, non soltanto oblitera in un sol colpo la tentazione di pensare che quella mostrata in scena sia al 100% una “storia vera”, ma è indizio metateatrale di un interrogarsi non di maniera dell’autore sul senso e sulla finalità del proprio stesso lavoro.
Ecco, allora, che la vicenda personale di Pietro, ingrassato e afflitto da psoriasi nervosa per l’insostenibile condizione lavorativa sfociata nelle sue dimissioni per nulla volontarie, innesca ulteriori riflessioni, in primo luogo sulle scelte compiute che, aldilà dell’apparenza e del giudizio pregiudiziale, sono state in realtà, queste sì, del tutto volontarie: l’abbandono della musica per una materia più pragmatica da parte di Pietro e, all’opposto, la vocazione teatrale dell’autore che prevale sulla laurea in economia. Alberici ci ammonisce, insomma, a non fermarci alla superficie e, soprattutto, a evitare giudizi affrettati e “romanticamente“ stereotipati: Pietro ha consapevolmente – e, agli inizi almeno, entusiasticamente – accettato la proposta della grande azienda e la sua rinuncia alla musica non è stata una decisione obbligata. Pietro vuole condurre una vita “normale”, sposarsi e formarsi una famiglia: che male c’è? Alberici, qui, pone in discussione quella visione del mondo, in fondo essa stessa snobistica e convenzionale, per cui quando si abbandona una carriera artistica lo si fa perché costretti, magari da una madre dotata di un eccesso di buon senso. Pietro ha scelto il matrimonio, Daniele il teatro: entrambi hanno compiuto passi dettati esclusivamente dalla propria volontà anche se, poi, certo, il mondo esterno quella stessa volontà ha messo a dura prova. Ma, ed è questo il nocciolo tenace dello spettacolo di Francesco Alberici, aldilà dello smascheramento di pratiche anti-sindacali e inumane dietro facciate affabilmente smart ovvero del discorso metateatrale sull’intreccio di realtà e finzione, quella che il drammaturgo/attore/regista auspica è la pacifica accettazione di scelte esistenziali compiute con piena consapevolezza, con la conseguente rivendicazione di quel “tempo” di vita vera che impellenze lavorative o meno, comunque queste sì non volontarie, ci sottraggono, troppo spesso in misura non umanamente accettabile.
Regia e drammaturgia di Francesco Alberici. Scene di Alessandro Ratti. Luci di Daniele Passeri. Tecnica di Fabio Clemente, Eva Bruno. Con Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi. Prod.: SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione; in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano; con il sostegno di La Corte Ospitale.
Visto al Teatro Grassi di Milano il 20 febbraio 2024
Foto Francesco Capitani