Pin It

Ci sono spettacoli che fondano sul ritmo la loro qualità essenziale. Non sono spettacoli comici, né vogliono colpire con la profondità o l’energia degli intrecci, delle situazioni, delle battute, dei personaggi. No: dispiegandosi con un ritmo lento,

stabile, attraversato da grumi di senso, interrotto da lievi scissure, metafore dissimulate, onde emotive quasi impercettibili, questi spettacoli segmentano profondamente l’azione scenica, amplificandone la forza comunicativa e coinvolgendo intimamente, ritualmente si direbbe, il pubblico. Ipnotizzandolo. Si tratta prevalentemente di monologhi, di spettacoli di narrazione o in cui la narrazione o il flusso di coscienza è l’azione stessa di un personaggio (o anche di più di un personaggio). Resta evidente che questo tipo di partiture ritmiche si definiscono meglio nella dimensione della narrazione teatrale. C’è una lunga serie di lavori di questo tipo nella produzione teatrale contemporanea, almeno in quella del nostro paese, e siamo sicuri che a questa serie si aggiungerà meritatamente “La morte, ovvero il pranzo della domenica”, lo spettacolo che la compagnia Dammacco/Balivo ha presentato a Castrovillari (Teatro Il Capannone, nel contesto di Primavera dei teatri ’24) il primo giugno scorso. In scena c’è Serena Balivo, mentre ideazione, testo e regia sono di Mariano Dammacco. Il concept è semplicissimo: una figlia, non più giovane anzi in età decisamente avanzata, si reca a trovare, come ogni domenica, gli anziani genitori per pranzare con loro. Va in scena il racconto di un piccolo e inossidabile rito familiare: l’arrivo in orario anzi un po’ in anticipo, il parcheggio giusto, i saluti affettuosi, l’appartamento, l’ascensore, i mobili di casa, i ricordi, le tende, il pranzo, le portate, sempre quelle, il commiato che dissimula l’angoscia, il salutarsi da lontano. Un rito che si dispiega in dieci, riconoscibilissimi quadri: “Il pranzo della domenica, ovvero la morte”, “La morte degli altri”, “I ricordi”, “Le patatine fritte”, “Organizzare la morte”, “L’ultimo desiderio”, “Un bel niente”, “L’ultima felicità”, “Il Paradiso”, “Ciao”. E forse, in contesti simili, se ne potrebbero aggiungere altri: le pagelle dei bambini, le foto al mare, i lunghi viaggi in macchina per andare dai nonni al sud, il cellofan sui sedili della macchina, etc. Perché diciamo che questi quadri sono riconoscibilissimi? Perché per chi è nato tra gli anni sessanta e i primi anni ottanta questi quadri drammaturgici sembrano comporre la radiografia di un’esperienza comune a tantissimi uomini e donne che oggi hanno, sostengono, accudiscono genitori ultraottantenni. E forse questo accade nel nostro paese più che altrove. Un rito, si diceva, che costringe quella donna già matura, ed evidentemente provata dalla sua vita, a ritrovarsi nella dimensione di figlia, a confrontarsi, da vicino e in un contesto di ceto medio piccolo borghese, urbano, impiegatizio, con i temi più profondi dell’esistenza: la presenza quotidiana della morte, la morte degli altri e quella nostra, la morte nostra da addomesticare ed esorcizzare provando a organizzarla e immaginarla, il senso del dovere sociale vissuto quotidianamente in una società che sembra averlo smarrito, l’indiscutibile sostanza dell’amore coniugale (solidità e unicità di rapporto che appaiono sempre più oggetti antichi e misteriosi), l’amore filiale come complemento necessario di quello coniugale, il senso dell’intimità familiare, il tempo e la presenza del passato, la religiosità che sembra fatta di un immaginario rassicurante che tende a confermare quella condizione familiare. Dammacco e Balivo costruiscono un congegno drammaturgico che, proprio perché si dipana da fatti minimi e largamente riconoscibili, cresce via via in emozione e in potenza comunicativa, pur mantenendo basso e controllato il livello del pathos. E non c’è da meravigliarsi se di questa potenza si vedono e sentono gli effetti nel singhiozzare contenuto del pubblico. Serena Balivo è straordinaria nel mantenere questo equilibrio, gestendo con ironico distacco i movimenti emotivi che, attraversando la voce, arrivano al pubblico. Qualcosa di simile si può dire delle musiche originali di Marcello Gori: partecipano dell’emozione che quella intimità familiare suscita, ma allo stesso tempo la contengono in un’atmosfera di straniata ironia.
Dopo avere così descritto lo spettacolo non ci si può esimere tuttavia dall’affrontare il nodo della sua reale necessità artistica. In altre parole: al di là della riconoscibilità della situazione portata in scena, al di là del potente dato emotivo, che cosa ci prende profondamente di questo lavoro? Che cosa ci tocca di esso e che cosa ce lo rende utile nel capire noi stessi e la nostra realtà? Perché potrebbe essere necessario confrontarsi con una storia del genere? È giusto usare il condizionale dato che la complessità dei fenomeni artistici contemporanei non prevede certezze né letture conclusive. Non è un nodo che si scioglie facilmente e, forse, bisogna lasciare che lo spettacolo si assesti nella memoria e nella ricerca di senso. Il nodo è nella sua forma, il nodo è l’ironia: quella figlia, ormai matura, quella figlia in cui tanti nel pubblico si ritrovano, riconosce quei genitori e si riconosce in essi, si riconosce nella loro esperienza vitale, riconosce l’intimità del loro essere coppia e si riconosce come parte di quell’intimità, di quella storia d’amore lunga una vita. Quella donna vede e teme, già nella sua vita, la stessa morte che i suoi genitori vedono, temono ed esorcizzano nella loro. Ecco perché i saluti, lasciano aperto l’incontro e non sembrano riuscire a esaurirne la tenerezza. Eppure quell’ironia non è solo un dato di carattere, non è soltanto il segno che caratterizza quel personaggio, è la tragedia intima del non potere, del non dovere e del non riuscire più ad aderire totalmente al modello rappresentato dai genitori. Un modello introiettato, ma che resta impossibile da perseguire in nessuna delle sue articolazioni: la possibilità di una vita di coppia lunga tutta un’esistenza, la disponibilità interiore ad aderire ai doveri minimi e burocratici della società, la disponibilità a scommettersi in un impegnativo percorso religioso senza, al contrario, trasformare la religione in poco più che una rassicurante mitologia che ci aiuti a esorcizzare la paura morte, infine persino la possibilità deliziarsi con una «irragionevole cofana di patatine fritte» dalla mamma senza sentirsi tremendamente e ridicolmente in colpa per linea e salute? Essere il frutto amato di una storia, ma capire che è impossibile riprodurla con la conseguenza necessaria (ma dolorosa) del restarne affettivamente dentro ma sostanzialmente fuori. E non poter fare altro che lasciare soli i genitori difronte alla morte e affrontare noi stessi, da soli, la morte nostra e senza nemmeno le loro sicurezze. Ecco che l’ironia di Serena Balivo assume ben altro rilievo e significato rispetto a quello, pur già notevole, della raffinata e intelligente prova d’attrice. Questa ironia è il contenitore di senso dell’azione drammaturgica e non ne è il contenuto né, tantomeno, il colore. Questa ironia è il segno più profondo della necessità e della verità di questo lavoro. Non è poco e occorre correre a vederlo.
 
Compagnia Diaghilev - Dammacco/Balivo
La morte ovvero il pranzo della domenica. Castrovillari 1 giugno 2024, Teatro Vittoria.
Uno spettacolo con Serena Balivo. Ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco. Musiche originali Marcello Gori. Tecnico Erica Galante. Consulenza spazio e luci Vincent Longuemare. Oggetti di scena Andrea Bulgarelli / Falegnameria Scheggia. Ufficio stampa Maddalena Peluso. Produzione Compagnia Diaghilev, Con il sostegno di Spazio Franco (Palermo), Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno).

Foto Angelo Maggio