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Margherita Sarfatti arriva alla mostra del decennale della Marcia su Roma. E’ il 1932, a Palazzo delle Esposizioni lei non è stata neppure invitata. Eppure è stata la critica d’arte più influente del suo tempo, amante del Duce, ispiratrice del Fascismo.

Sola, con se stessa e davanti al mondo che un tempo plaudeva.
Al Teatro Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo, 14 fino al 14 luglio) Claudia Coli porta in scena il flusso di coscienza della contraddittoria personalità che tanta traccia di sé ha lasciato nella nostra storia culturale. Ricca ebrea, amante del lusso e del bello, ha fondato il Gruppo Novecento con artisti del calibro di Sironi. Mecenate di futuristi come Boccioni, mentore di un giovane e rozzo Mussolini che con lei si è affacciato ai salotti buoni della Milano che conta. Un connubio di intenti con il futuro dittatore, spianare la strada all’uomo forte di cui l’Italia aveva bisogno per uscire dal pantano immobilista. La sua forza veniva dalla morte del figlio adorato, Umberto, nelle trincee della Prima guerra mondiale. Da lì il desiderio di riscatto per la patria, il desiderio di dare un senso a quel lutto sublimandolo nell’energia vitale di quel giovane uomo dai grandi progetti. E allora fu lei a lanciare il Benito nazionale sulla scena d’oltralpe con quella biografia, Dux, che tanto fece parlare di lui come la quintessenza della modernità politica.
Ma poi la parabola volge al termine, le origini ebraiche diventano un ostacolo, ancora di più l’amore per quell’uomo che ama altre donne e nessuna donna. Fredde lettere la escludono da un ruolo di primo piano che tutti le riconoscevano, finché l’establishment le volta le spalle. Lei, sola, con il suo flusso di pensieri angosciati ripercorre una vita pazzesca e assurda al contempo. Sentimenti opposti si affrontano su un palcoscenico metafisico, quasi uno spazio dell’anima alla De Chirico dove amore e odio, orgoglio e disillusione, euforia e tracollo gareggiano nell’impossessarsi di quell’anima tormentata. Nessun bilancio, solo un affresco della complessità di una donna che paradossalmente tanto ha dato alla cultura del proprio tempo – artistica e politica – e per questa ragione tanto ha perso in rilievo e riconoscimento.
Nessuna voglia di tributi, revisionismo o pietismo, come forse un personaggio di questo calibro potrebbe indurre. La scrittura di Angela Dematté, insieme alla regia austeramente immobile di Andrea Chiodi – riuscitissima – immagina invece di indagare i tormenti interiori, una sorta di “Ei fu” che non chiede affatto ai posteri l’ardua sentenza. Quella c’è già stata, l’ha emessa la storia – relegandola in una sorta di oblio della marginalità per decenni, in espiazione dei suoi errori di valutazione– e l’ha aggravata il bilancio personale della stessa Sarfatti – molto severa con se stessa negli ultimi anni della propria esistenza. 
Questa vicenda umana diventa allora un pretesto per raccontare le bizzarre assurdità dell’animo umano. Lo slancio di riscatto dal dolore per un lutto incolmabile, l’amore per la persona sbagliata al momento sbagliato, un sogno di felicità. Poi la disillusione, il tracollo, l’amaro vero. Per gli amanti del flusso di coscienza.

Foto Elisa Vettori