Sembra sempre tutto uguale eppure, il Teatro delle Ariette, è sempre e felicemente nuovo e diverso. In “Noi siamo un minestrone”, infatti, il consumare noi il cibo prodotto e cucinato da loro (che in fondo sono indubitabilmente noi) si allarga al
gesto di preparare insieme il cibo, appunto un semplice ma complessissimo minestrone di verdure cotto nell'altrettanto semplice acqua, per consumarlo insieme, tra corpi e spirito (quest'ultimo è sempre uno e collettivamente singolare), in quella “presenza” che il teatro solo può svelare ai loro e ai nostri occhi.
Una preparazione che è proprio come il teatro (e la vita), unendo la concretezza del reale (le verdure che, recitando, tagliamo e prepariamo) e l'infinità dell'immaginazione (l'acqua che è la prima componente della vita 'vera', quella che non ha inizio e non ha fine).
Ed è proprio la semplicità del gesto e dell'azione che smaschera la presunta e distorta complessità del pensiero che invece non può che riassumersi, se vuole essere sincero, nel sentimento che solo può dare a lui e a noi un senso.
Filosoficamente o antropologicamente parlando scivoliamo inconsapevolmente oltre lo stesso simbolo, perchè manipolando il nostro cibo e condividendolo andiamo, come antichi alchimisti, a manipolare il sentimento della vita, l'amore come dobbiamo infine chiamarlo, finalmente e paradossalmente 'impadronendocene' di nuovo.
I gesti infatti diventano le parole di una narrazione in altra lingua che l'azione drammaturgica del raccontare recupera come una rete da pesca e che poi 'traduce'.
Tutto questo sta dentro il racconto scenico di Paola Berselli e Stefano Pasquini, di fronte al quale siamo insieme protagonisti, comprimari, tecnici e spettatori, riassumendoci nella azione scenica che quel racconto produce e accompagna, e al riguardo come non ricordare le, all'apparenza ben diverse, azioni grotowskiane dell'ultimo Workcenter.
Così a sottolineare che il teatro è anche, se non soprattutto, politico i due drammaturghi ci suggeriscono anche per un attimo i territori altrettanto analoghi del Living Theatre, di Julian Beck e Judith Malina che in altro modo utilizzavano anch'essi con efficacia il gesto per disotterrare il sentimento.
A dare radici alla narrazione, e amalgama al minestrone che siamo noi come dicono Paola e Stefano, la stessa vita vissuta, abbandonato il teatro 'ufficiale' del “Circo Ballotta”, dalle Ariette dopo aver raggiunto, forse anche a loro insaputa, quell'omonima terra a loro promessa sull'Appennino bolognese.
Una vita vissuta nel segno di un amore reciproco che anch'esso, in questa nostra società fluida e sempre più virtuale che dissolve il sentimento proprio facendolo prescindere dalle proprie radici vitali e concrete, va oltre il simbolo per diventare quasi una mano tesa nel deserto.
Un'isola di luce nell'oscuro oceano del presente, che ricorda antichi monaci oranti che salvano il mondo, o anche gli uomini libro del truffautiano Fahrenheit 451 che diventando racconti isolati nel bosco preservano l'umanità dell'uomo, o anche residui ma ancora forti globuli bianchi antidoto al virus della dissoluzione del sentimento e dell'anima di ciascuno di noi.
Dunque uno spettacolo che, paradossalmente, è soprattutto importante nel dopo, quando raccolte le briciole del nostro pasto, senza nulla sprecare, possiamo utilizzarne l'energia mentale per essere un po' di più noi stessi, anche recuperando ciò che abbiamo, man mano consumati dal cosiddetto pensiero unico, dimenticato.
Condividere un amore reciproco di decenni è cosa non facile ed è uno dei miracoli del teatro e del teatro delle Ariette in particolare, che nulla ci dice se non quello che dovremmo sapere ma che stentiamo sempre più a pensare e soprattutto a 'patire'.
Una vita che è tutta una relazione di cambiamento, e infatti, come scrivono entrambi, “la relazione cambia le cose. Acqua e farina, nell’incontro, perdono le rispettive identità e ne trovano una nuova chiamata pane. Carote, patate, bietole e zucchine fanno lo stesso. Si incontrano in una pentola, dentro l’acqua che bolle, non saranno mai più quello che erano prima, ne conserveranno solo un ricordo”.
L'unico confine è ovviamente la morte ricordata quasi con pudore nella scomparsa dell'altro e nella ferita che questo produce sulla propria, nel tempo che scorre verso un dopo che è un dubbio che, in vita e forse anche in morte, non potrà mai risolversi.
Come ebbi modo di scrivere tanti anni fa, conoscendo “Le Ariette”, il cibo ed il teatro non servono per nascondere e allontanare la morte ma solo per ricondurla alla sua radice eterna, alla vita (senza la quale la morte non esiste) e al sentimento che produce e che rinnova in continuazione l'una e l'altra in un ciclo che non può interrompersi.
In prima nazionale, ospite di Zerogrammi/Casa Loft a Torino dal 2 al 6 ottobre. Coinvolgente e intenso.
NOI SIAMO UN MINESTRONE [Imagine], di, con, regia Paola Berselli e Stefano Pasquini, organizzazione Irene Bartolini, ufficio stampa e comunicazione Raffaella Ilari, creazione Teatro delle Ariette 2024.
Uno spettacolo visto nell'ambito della XIII edizione di “Play with Food - La scena del cibo” che a Torino promuove incontri e spettacoli intorno al tema del cibo, nutrimento del corpo ma prima ancora dell'anima in quanto attorno ad esso si raccolgono i sensi e i sentimenti che la parola convivialità, in Italia per fortuna ancora apprezzata, riassume nei suoi mille riflessi, suggestioni e significati. È un progetto di Associazione Cuochilab, con la direzione artistica di Davide Barbato, realizzato con il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo (maggior sostenitore), Città di Torino, Ministero della Cultura Direzione Spettacolo, Regione Piemonte, Fondazione CRT, e con il supporto di Camera di commercio di Torino. Main sponsor Nova Coop.
Foto S.Vaja