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Dal capolavoro di Elsa Morante, una potente vicenda di altri tempi. Arturo Gerace è un bambino orfano di madre e innamorato di un papà assente di poche parole, selvaggio e solitario nella sua Procida di quel dì. Passa le sue giornate attendendo il

ritorno di quel padre-eroe che parte sempre e ritorna sempre solo per lui.
E’ proprio Arturo a raccontarsi sulla scena (Teatro Elfo Puccini, corso Buenos Aires, 33 a Milano fino al 10 novembre 2024), in una sorta di spazio-mondo delimitato da un campo luminoso angusto e semivuoto. Un letto troppo piccolo, un mobile e una sedia. Il resto è la crescita interiore di Arturo che passa attraverso le parole confidate a se stesso. 
Quell’ammirazione mitizzante un giorno si incrina. Il padre si presenta con una nuova moglie, di poco più grande di Arturo. Rabbia, diffidenza, gelosia invadono l’animo di Arturo: ora quel padre non verrà più a Procida solo per lui. Poi un giorno un bacio tra i due ragazzi, la vergogna e la distanza, l’amore che arde segreto.
Un nuovo ritorno di quell’uomo, questa volta con gli occhi infiammati di passione per un giovane incarcerato scortato fino alla colonia penale sulla cima del monte di Procida. Il loro legame è unico, i fischi di intesa nella notte, i silenzi sospesi. Alla liberazione, la fuga insieme e il silenzio per sempre. 
Arturo è davvero solo, il suo mito infantile ha dato un senso alla sua esistenza e ora ha seguito la sua strada senza includerlo. E’ arrivato il momento di abbandonare quell’isola simbolo dell’infanzia e dei suoi sogni ora perduti.
La storia potente della Morante è rappresentata attraverso un gioco di quadri successivi, azioni sceniche in monologo che mettono a fuoco uno snodo interiore di Arturo. Pur con una certa velocità rappresentativa, la vicenda riesce ad eternizzarsi come educazione sentimentale. Dall’ascesa alla caduta del dio-padre, dalla chiusura nel proprio io alla scoperta dell’amore proibito per la matrigna, dall’incontro della propria umanità a quella dolorosa del proprio padre. 
In scena Arturo è solo, pur tuttavia di una solitudine fine e speciale. E’ la solitudine di chi assiste alla ricerca di altri del senso della propria vita. Loro un senso lo trovano e percorrono la propria strada, che va inesorabilente lontano. Non c’è spazio per la rabbia verso costoro, hanno seguito il proprio daimon interiore. Non c’è spazio per la rabbia verso la vita, è fatta così e chiede a ciascuno di vivere la propria storia, anche sacrificando le aspettative altrui.
Tra un delirio di morte e uno di potenza, finalmente Arturo comprende di avere una propria via da percorrere lontana da quell’isola-utero-rifugio. E’ una via non più di attesa dell’altrui eterno ritorno in una sospensione fuori dal tempo, è invece il rimescolarsi con l’acqua e la terra della vita.
La regia di Andrea Lucchetta conferisce un’impronta fuori dal tempo, tra l’onirico e l’introspettivo. Ma è grazie al segno recitativo di Vincenzo Grassi che la vicenda procede in equilibrio tra un tempo ormai andato e una dimensione estemporanea sempre valida.

Foto Manuela Giusto