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Questo di Sarah Kane è il testo più conosciuto e forse il più rappresentativo, ormai un vero e proprio 'classico' della drammaturgia contemporanea, eppure come la follia, o meglio come il dolore di vivere apparentemente sempre uguale a se

stesso, è qualcosa di sempre nuovo e diverso, così sfuggente da essere prossimo alla indicibilità, oltre ogni retorica.
Così una drammaturgia che ha ormai migliaia di repliche in tutto il mondo e in tutte le lingue mantiene un viso e una figura che non possono essere imprigionati, come molti hanno cercato e cercano di fare, in una anonima cartella clinica psichiatrica (incapace come ogni medicalizzazione, scrive la stessa Kane, di intercettarne i tratti) ovvero in una sorta di fotografica composizione eccessivamente classificatrice.
Questo poiché suo protagonista non è la follia, che pure produce ed è prodotta dal dolore, ma il dolore stesso e il tentativo di farne una sorta di strumento di una angosciata, angosciante e fallimentare 'educazione sentimentale' al vivere.
La Kane in questa che è stata la sua ultima drammaturgia, infatti, non vuole parlarci del proprio dolore, che come noto la condusse al tragico suicidio a soli ventotto anni, ma bensì vuole parlare, attraverso di esso, al nostro dolore in un imprevedibile e talora misconosciuto slancio di umanità che non può darsi, come guarigione immaginata oppure tragicamente immaginaria, che nella condivisione.
Non tanto dunque un grido di dolore che va in cerca di aiuto, piuttosto una paradossale offerta di aiuto lanciata, come un biglietto in una bottiglia abbandonata ai flutti ondosi della esistenza, nella speranza di incontrare orecchie che la possano intendere e recepire.
Con la sua drammaturgia ci porta dunque nella tempesta che ha fatto naufragare la sua vita, ci conduce tra i resti abbandonati su una spiaggia nuvolosa, resti di un passaggio che non può che lasciare segni e lanciare segnali, relitti di un vascello travolto dalle onde mentre cercava di navigare verso la felicità.
La sua scrittura, spezzata come i vetri taglienti che riempiono la scenografia ma straordinariamente consapevole nella e della sua 'irrazionalità', è come la marea che si infrange su quella stessa spiaggia raccogliendo e componendo i geroglifici di una esistenza non ancora decifrati, sperando quasi che altrove (nel farsi palcoscenico?) e in altro modo, nel rapporto con l'altro che si fa pubblico in sala, possano essere decifrati.
Elena Arvigo, sempre più brava e consapevole e ormai diventata una delle attrici più apprezzate della scena italiana e estera, ha fatto suo questo testo (nella efficacissima traduzione di Barbara Nativi), portandolo con sé in molte repliche da oltre un decennio, man mano arrivando ad amalgamare il suo corpo scenico alla scrittura di Sarah Kane e così dando suono alle sue parole silenziose, naufragate anch'esse su quella spiaggia, su cui come un vento tempestoso soffia la bella musica di Susanna Stivali e che lei percorre quasi come un marinaio che cerca di salvare tutto ciò che, di quel naufragio, possa ancora essere salvato e recuperato per noi.
La Arvigo si fa così strumento di regia che guida ed è guidato dalla mano attenta e anche pudica, del pudore che è della umanità e della compassione, di Valentina Calvani (insieme alla quale qui firma anche le scene, i costumi e le luci) che dall'inizio la accompagna in questa sua difficile e feconda peripezia.
Una scrittura di donna portata in scena da sole donne, un femminile che da 'plurimo' si fa misteriosamente 'uno' nel corpo scenico della protagonista, che in questo suo essere centro della scena (anche in controscena) e portatrice di un dolore che sente profondamente e da cui insieme è superata, ci ricorda certe prove ibseniane di Eleonora Duse.
Alla Sala Mercato di Genova Sampierdarena, messa a disposizione dal Teatro Nazionale di Genova e ospite, non solitario, del “Festival dell'Eccelenza al Femminile” da poco iniziato, il 24 ottobre in unica replica.
Molto pubblico e molti applausi.

4.48 Psychosis di Sarah Kane, traduzione Barbara Nativi, regia Valentina Calvani, con Elena Arvigo
musiche originali Susanna Stivali; scene, costumi e luci Valentina Calvani e Elena Arvigo, produzione Santarita & Jack Teatro; con sostegno Teatro OUT OFF