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Questi lunghi anni di distanza dal teatro mi hanno aiutato a fare una certa pulizia, anzitutto a proposito di quel che è il valore eventuale di uno spettacolo; finché sei parte di un mondo, come quello del teatro, tendi anche a giustificare, a spiegare, a

motivare, magari un amico o un artista che segui ha realizzato uno spettacolo e anche se senti che qualcosa non funziona lo taci, o eviti comunque di entrarci coi piedi di piombo. Dopo lunghi anni di boschi, cammini, di respiro all’aria aperta, mi sono chiarito, senza volerlo, le idee. Uno spettacolo o funziona o non funziona. Una musica o ti arriva o non ti arriva. Altra questione riguarda ovviamente la propria suscettibilità del giorno, ma qui si entrerebbe in un discorso da divano psichiatrico che esula dalle nostre eventuali considerazioni.
A Torino è ancora attivo il Festival delle Colline Torinesi, giunto alla ventinovesima edizione, non si svolge più nel mese di giugno, ora si svolge in pieno autunno. Quest’anno ne sono protagoniste compagnie storiche quali la Societas Raffaello Sanzio e Pippo Delbono, ma anche Piccola Compagnia della Magnolia, Daria Deflorian, Madalena Reversa, El Conte de Torrefiel, Euripides Laskaridis, Pantelis Flarsousis, Stefania Tansini, il Teatro dei 13 venti di Montpellier e il Teatro della Tosse di Genova. 
Tra le diverse proposte ho scelto Hannah, dedicato ai casi eclatanti della vita della libera pensatrice e scrittrice Hannah Arendt. Figura pulsante del nostro tempo, affascinante ma anche “irregolare”, come si dice, capace di alimentare caparbiamente discussioni coi suoi punti di vista antiretorici. La drammaturgia e la regia sono curate dal condirettore del Festival, nonché noto volto della cultura teatrale del TG3 Piemonte, Sergio Ariotti. Avvicinandomi allo spettacolo, in scena alla Sala Pasolini del Teatro Gobetti, ho iniziato a rimuginare pensieri che spesso mi hanno attraversato al cospetto di film o spettacoli e anche di saggi dedicati a certe figure monstre, notevoli o rilevanti della contemporaneità. Spesso si precipita nell’errore di “santificare” queste figure, usando anche citazioni come se fossero verità bibliche, indiscutibili, veri e propri mattoni lanciati nella testa dello spettatore. Speriamo, mi dicevo, che il genere non si riaffermi.
La prima parte invece evita tutto questo: l’attrice, una misurata ed elegante Francesca Cutolo, evita di eccedere in sicurezza, si comporta come una conferenziera che arriva ad un tavolo “americano” – lo suggerisce la bandiera a stelle e strisce che lo ricopre – e vi posa una valigia dalla quale usciranno una serie di oggetti di scena che aiuteranno nel racconto, diventando essi stessi personaggi. Siamo nel 1943, si racconta dell’emigrazione forzata da Francia e Germania negli Stati Uniti dove gli ebrei sfuggiti alla presa nazista non vogliono farsi trattare come rifugiati, ma come nuovi arrivati, ed è questa una preziosa distinzione che prende l’uditorio, al quale si racconta di una condizione non così nota, la vita di coloro che hanno lasciato un mondo e si ritrovano oltreoceano per viverne una completamente diversa, quando ancora l’invenzione dello Stato di Israele sembrava ovviamente una disquisizione teorica, un miraggio. Il racconto accelera e decelera, si intrecciano storie generali e impersonificazioni individuali, facendo sponda con l’esperienza della protagonista, sfiorando certi altri grandi nomi di filosofi, gli amori, gli amici, le difficoltà per adattarsi e trovare un lavoro. Il successo e le grandi discussioni sarebbero fiorite successivamente, coi libri mai accettati dal circolo ristretto dei “veri filosofi”, ma d’altronde tutti i circoletti sono asfittici, siano essi poetici, teatrali, giornalistici, accademici o d’altra natura; le opinioni non retoriche sul male e su figure quali Otto Adolf Eichmann, uno degli organizzatori dei campi di concentramento, processato a Gerusalemme nel 1961, hanno catalizzato l’opinione pubblica mondiale e furono al centro del saggio La banalità del male. Il cinema se ne è occupato ripetutamente.
La seconda parte dello spettacolo invece è una lettura, una lettura veemente della vita e dei fatti salienti dell’avventura umana quanto del pensiero di Hannah Arendt, un nome che viene ripetuta davvero tante volte, troppe. In questa seconda sezione i miei timori si concretizzano e arrivare al fondo si fa faticoso, oltremodo l’attrice, per darsi ritmo esibisce un tono costantemente stentoreo che rende forse anche meno seguibile la lettura teatralizzata. Le notizie sono per lo più note, gli eventi eclatanti già li conosciamo, e dunque forse sarebbe stato più interessante proseguire la linea ben riuscita della prima parte, uscendo dalla memorialistica, dall’informazione didascalica, focalizzandosi su qualcosa di più quotidiano e specifico, da far vivere e raccontare all’attrice come se fosse vita vera, un episodio, non la summa liofilizzata di un’esistenza. Peccato.