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Per chi ama o solo apprezza la danza Butō il Festival “Testimonianze, Ricerca, Azioni”, encomiabilmente promosso da “Teatro Akropolis” di Genova e giunto tra le mille consuete difficoltà che attraversano il teatro al suo quindicesimo anno di vita, è

diventato un appuntamento raro e imprescindibile nell'intero panorama nazionale.
Questo nell'ambito di una attenzione al teatro di ricerca, giovane e innovativo soprattutto, che la direzione artistica di Clemente Tafuri e Davide Beronio, coadiuvata da quella amministrativa di Veronica Righetti, si è posta come suo obiettivo principale e cifra di una complessiva attività che spazia dalla elaborazione estetica, alla produzione teatrale e alla raffinata editoria, alimentata nel suo insieme da una feconda semina nel territorio di Genova e delle sue delegazioni una volta 'operaie'.
Dunque, come detto, domenica 10 novembre è stata la giornata dedicata come di consueto al Butō, e come di consueto nelle sale del Palazzo Ducale di Genova, forma estetica assai particolare, una sorta di 'monstrum' artistico che mescola nei suoi contenuti le suggestioni dell'antico teatro orientale (e della sua filosofia tra il pan-teistico e il pan-naturale) con gli stimoli dell'oggi e le sue ferite profonde, mentre nella sua 'forma' contamina la performance fisica, talora quasi 'estrema', dei suoi movimenti, simili a geroglifici, e quella della razionalità-irrazionale della danza mistica e della più classica coreusi del balletto, così da comporre in scena una scrittura che fa evadere il 'logos' dalla sua prigione oltre le mura del non detto e del non dicibile.
Ma, paradossalmente, per parlare del Butō non bisogna parlare del Butō, ma bensi del sentimento, della emozione e della commozione, che è una passione comune e condivisa, del Butō stesso, cioè di quel sentimento che il Butō provoca nella sua doppia translitterazione che, prima, nel danzatore trascrive la parola nel gesto e che, poi, nello spettatore traduce quel gesto nella parola del suo pensiero.
Perché il Butō non è solo un paradosso ma anche, nel suo fondo, una 'provocazione' del cuore e della mente oltre la mistica, capace di lacerare e poi sanare la ferita che produce, distillando il veleno che c'è dentro di noi, oggi più di ieri, per renderlo come nell'antichità 'pharmacos' che sana l'individuo e con esso la collettività.
È così un teatro che sottrae, è, il Butō, una danza che non organizza lo spazio ma, rompendo il cerchio magico della danza stessa, lo dilata fin quasi ad annullarlo, mentre il suono che quel silenzio produce rompe il cerchio del tempo, così che, come l'infinito è l'assenza di spazio nel punto geometrico, l'eternità nicciana è l'assenza del tempo che ritorna, non la sua stanca prosecuzione e ripetizione.
Il danzatore Butō infatti non ripete ma reitera il ritmo dell'assenza cercando di portarci, come ad esempio i famosi Dervisci in Anatolia, nell'altrove che portiamo dentro di noi.
È un tempo che rallenta fino all'attesa e al suo silenzio, ed in questo come non ricordare l'ultimo bellissimo film di Wim Wenders “Perfect Days”.
La giornata ad Akropolis ci ha offerto di tutto ciò una serie di 'variazioni'  (in senso musicale intendo) con tre bei spettacoli ed un film altrettanto bello, amalgamando nel suo complesso una tale 'offerta' (escluso il lato 'commerciale' della parola per quello autentico di 'sacrificio') con l'inaugurazione della bella e ricca mostra fotografica (nella Sala Liguria del Palazzo Ducale) del bravo Lorenzo Crovetto che, avendo accompagnato  il Festival, testimonia, appunto, questi quindici anni della sua vita cogliendone profondamente l'afflato.

Avendo citato Wim Wenders è giusto cominciare con il bel film di Masaki Iwana, introdotto da Moeno Wakamatsu e Samantha Marenzi, “THE PRINCESS BETRAYAL” che nell'immagine fonde il passato del Giappone (con la guerra e la tragedia dell'Atomica) con il suo presente, segnandone il discrimine nella diversa 'fotografia', sfumata per il primo con la tonalità sfuggente e suggestionante della 'memoria' (singola e collettiva), tagliente quasi per l'altro, con i colori contrastanti e contrapposti dello sguardo che si arresta all'orizzonte. Ma non solo, è una narrazione cinematografica capace di traslare nei toni della rievocazione una vita vera facendone ideogramma,  sotto il segno del 'tradimento', di una universailtà che appartiene all'intera umanità senza confini tra Oriente e Occidente, tra dentro e fuori. Un mondo in cui i demoni che abbiamo cacciato dal nostro sguardo quasi si vendicano attraverso le nostre azioni, come se la loro assenza potesse essere una manleva improvvisata alla nostra ir-responsabilità. Masaki Iwana, morto nel 2020, è stato uno dei più famosi danzatori Butō e questo suo film, pur non avendo come suo oggetto diretto quella danza, pure presente in certi improvvisi scarti di ritmo, è come la proiezione del suo sgaurdo attraverso i filtri più intimi della suo essere danzante.
Con: Akiko Taumi, Yuri Osawa, Kosho Nanami. Scritto e diretto da Masaki Iwana Riprese Masaki Tamura. Nella “Sala delle Donne” del Palazzo Ducale di Genova e nell'ambito della rassegna Dissolvenza in nero. Cinema video arti performative.

Il film è stato preceduto dal primo spettacolo della giornata, “DANZA OMBRA” di Stefano Taiuti, in cui è rappresentata una sorta di nascita del corpo attraverso il suo spirito, il corpo nasce come un'ombra riflessa dalla luce di una candela, spirito vitale inesauribile che ne è causa ed effetto, e si proietta nel mondo come le ombre della platonica caverna. Nel vuoto di uno spazio che si crea nel confronto-scontro tra luce e buio il corpo compie il suo tragitto, aprendosi all'universo a custodire nella contingenza del suo tempo la luce irriducibile dello spirito, flebile ma invincibile, dell'Umanità.
Di e con Stefano Taiuti. Nella Sala del Minor Consiglio a Palazzo Ducale di Genova. In prima assoluta.

A seguire, dopo la proiezione, la creazione di Alessandra Cristiani “CADUTA LA NEVE DA SARAH MOON e TRILOGIA. IL LINGUAGGIO CORPOREO E L'ARTE DI A.MENDIETA, C.CAHUN, S.MOON” in cui è più evidente l'influsso figurativo delle sue tre ispiratrici. Qui il Butō mostra la sua grandissima elasticità e capacità metamorfica facendosi costruttore di spazi, corporei e mentali, in cui esercitare la raffigurazione, la nascita della figura cioè che come la “Venere di Botticelli” (talvolta suggerita nella dinamica dei movimenti) ergendosi da una conchiglia si mostra al mondo 'mostrando' il mondo. È uno spettacolo complesso nelle sue corrispondenze che però fa della sua semplicità (cifra anche questa propria del Butō) la chiave per aprire quella stessa complessità, che è la complessità dell'essere umano e dell'universo che l'ha prodotto e in cui vive nonostante il male che lo infiltra. Iniziato sotto il segno del 'tempo' il cui ritmo accompagna come un metronomo l'esordio della danzatrice, capace di incarnarsi e di essere incarnata nell'ambiente musicale che la circonda, lo spettacolo si sviluppa sotto quello della liberazione dalla sua (del tempo) schiavitù icasticamente rappresentato dalla finale rottura dell'orologio che come un 'totem' incombe sulla scena. Emergono poi, qua e là, i simboli di un femminile che ha nel rosso il colore della sua fecondità e della sua oppressione (è il colore dei femminicidi), mentre il nero trasforma i suoi lamenti in un grido di rivolta. 
Progetto e performance  Alessandra Cristiani. Musica e suono Gianluca Misiti. Progetto luce Gianni Staropoli. Tecnico luce Lucia Ferrero. Produzione PinDoc. Coproduzione Teatro Akropolis, Triangolo Scaleno Teatro. Con il sostegno del Festival Danae, Teatro delle Moire, Associazione Culturale Le Decadi. Con il contributo di MiC, Regione Siciliana. Nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale di Genova. In prima assoluta.

L'ultimo spettacolo della giornata, “DIVINE” di Yuko Kaseki e Megumi Eda, esplicita un elemento non sempre evidente nella danza Butō, cioè l'ironia, quella che la comicità del teatro Kabuki metteva a disposizione del suo spettatore. Lo fa mettendo in comunicazioni le forme del Butō con quelle della più tradizionale danza classica (arte in cui rispettivamente le due protagoniste eccellono) in una frizione linguistica che svela in entrambe il pericolo di imprigionare nelle forme, quando queste si fanno aridi e rigidi stereotipi, lo spirito della vita o dell'arte, e dell'arte che, come direbbe Nietzche, 'danza'. Uno spirito divino che viaggia a fianco dei demoni della natura e ne riscatta il loro essere anch'essi angeli 'caduti'. Le due danzatrici sembrano provenire da due mondi diversi che però alla fine si rivelano, quando esercitati nella libertà del cuore e della mente, alimentati da una stessa sorgente. Quasi sperimentale se vogliamo e audace anche nella sua costruzione, patisce a volte una eccessiva confusione di suggestioni che rischiano di non amalgamarsi profondamente, scivolando a volte in un eccesso simbolico anche disturbante, cerca, non sempre riuscendoci, di rappresentare l'essenziale forma del movimento, il cui significato è infine la 'nostra' responsabilità. Uno spettacolo che è anche la storia di due vite.
Regia, coreografia, costumi Megumi Eda e Yuko Kaseki, con Megumi Eda e Yuko Kaseki. Compositore Reiko Yamada. Luci Teo Vlad e Daniel Miranda. Nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale di Genova. In prima nazionale.
Una giornata intensa e piena di suggestioni che va a merito del Festival e del Teatro che lo sostiene. Ci auguriamo che le restrizioni che, come nella cosiddetta famigerata “Spending Rewiew”, sembrano incombere sulla cultura italiana non siano un eccessivo ostacolo alla ulteriore crescita di una realtà meritevole ed interessante per il movimento teatrale in generale e per Genova in particolare.