Le ferite sulla schiena nuda, accasciato a terra. La protesta all’Università, i ragazzi chiedono il cambiamento perché i giovani sono il cambiamento. L’arresto, le torture della Sicurezza Nazionale della Repubblica Islamica, le minacce di morte,
l’esecuzione che incombe. “Lui” al Teatro Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo, 14 fino al 24 novembre) è la storia della vicenda personale di Ashkan Khatibi, attore e drammaturgo iraniano, anche protagonista e regista della pièce. La dura censura della Repubblica Islamica ha mostrato nuovamente il suo volto nella repressione sanguinosa del movimento «Donna, Vita, Libertà», del quale Khatibi è stato sostenitore. L’incarcerazione violenta e le torture sulla propria pelle rendono questo spettacolo una sorta di documento personale di acuta drammaticità. Poi la fuga fuori dal Paese e la via del teatro, per raccontare ad un occidente anestetizzato le speranze e l’amara realtà di un Paese smarrito. «Le ferite che erano arrivate fino al midollo delle ossa – scrive Khatibi – non mi hanno ucciso, affinché “Lui” non fosse il mio testamento, ma la mia dichiarazione».
La drammaturgia è polverizzata, antinarrativa, volutamente emotiva nella sua crudezza. Diversi quadri si susseguono, cambiano i luoghi e il tempo mentre il destino crudele incombe. Il corpo denudato è la tela su cui si imprime la violenza senza senso. Non c’è un vero e proprio testo, ma la successione di versi che per antifrasi oppongono l’elegia alla bassezza della tortura.
Anche la scenografia si fa minimale, quasi uno spazio dell’anima fuori dal tempo. Proprio questi tratti compositivi riescono a rendere la pièce un grido di dolore universale, capace di dar voce ai giovani di Teheran ma ai molti Giulio Regeni che questa voce non l’hanno più.
Foto Lorenzo Ceva Valla