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Un progetto inedito, fondato sulla volontà di sperimentare l’incontro fra uno dei drammaturghi più apprezzati e originali a livello internazionale e una compagnia “stabile” di attori, l’unica in Italia. Un modo per deragliare consapevolmente dai

rassicuranti binari artistici abituali e mettere alla prova le proprie capacità di sopravvivenza creativa. Il drammaturgo argentino Rafael Spregelburd ha lavorato a lungo - due anni e mezzo circa - con gli attori dell’Ensemble Teatro Due di Parma, durante momenti diversi e distanziati nel tempo, così da lasciare al materiale artistico il tempo per sedimentarsi e fermentare. Drammaturgo/regista e interpreti si sono confrontati, in primo luogo, sul tema che avrebbe dovuto essere al centro dello spettacolo che avrebbero realizzato insieme, convergendo sulla pressante necessità di interrogarsi sul futuro prossimo venturo dell’umanità. Dalle conversazioni fra Spregelburd e gli attori della compagnia del Teatro Due è germinata così l’idea di lavorare sul mito di Cassandra, la profetessa figlia di Priamo ed Ecuba e destinata da Apollo, infuriato per il rifiuto della giovane, a predire catastrofi senza essere creduta: ecco, allora, che il suo tentativo di dissuadere il padre dall’accettare dagli Achei il “dono” del cavallo di legno fallì miseramente causando la distruzione di Troia, la sua città. 
Spregelburd, tuttavia, non è certo interessato ad adattare alla contemporaneità il mito, limitandosi a qualche aggiornamento puramente cosmetico, bensì mira ad attraversare, laicizzare e problematizzare il personaggio di Cassandra, ricorrendo alla lente del teatro e allo stravolgimento sistematico dell’organizzazione razionale della narrazione e della rappresentazione. Il drammaturgo ha composto, con il fondamentale apporto non soltanto dei suggerimenti degli attori dell’Ensemble, quanto piuttosto delle loro fisicità e personalità, un testo quasi fluviale – lo spettacolo dura più di tre ore – suddivise in due parti ben distinte e nondimeno complementari. La prima – intitolata L’oracolo invertito – è definita “apollinea” dall’autore, per il ruolo che il dio Apollo avrebbe nell’edificazione del mito di Cassandra; la seconda invece – I diciassette cavallini – ha, nelle intenzioni di Spregelburd, un carattere eminentemente “dionisiaco”, in quanto pervasa dal delirio indotto dal dio Dioniso. Due parti agite dai medesimi attori, benché con ruoli diversi, e nello stesso ridondante spazio scenico: malgrado qualche cambiamento nell’arredamento del proscenio – uno stravagante studio psichiatrico nel primo atto; lo spaccato di una casa e di un ufficio nel secondo – permane la sovrabbondanza di oggetti eterogenei che riempie ogni angolo del palcoscenico – una scultura in stile Jeff Koons, abiti di scena appesi a stendini di metallo, scaffali sovraccarichi di merci varie, l’enorme espositore di indumenti intimi vagamente osé, …  Uno spazio barocco, una sorta di contemporanea Wunderkammer, colma di quelli che la società attuale valuta indispensabili oggetti del desiderio ma anche correlativo oggettivo di quell’horror vacui che, a periodi alterni, pare affliggere l’umanità. Un’angoscia che accomuna i personaggi in scena durante la prima parte: lo psichiatra Antonio, i suoi pazienti Boris e la sedicente Cassandra, ma anche lo psicologo Gerardo e il “fantasma” del saggista e romanziere inglese Robert Graves, non a caso accurato studioso dei miti greci, e i due attori ingaggiati per aiutare i pazienti a metabolizzare positivamente le proprie patologie. Già da questa sintetica dramatis personae è possibile intuire la natura grottesca del testo, qualità non banalmente superficiale però – ché non si esaurisce certo nei riferimenti ironici alla Silvio D’Amico ovvero a personaggi noti della vita pubblica italiana – bensì intrinseca alla visione e all’approccio alla realtà peculiare dell’artista argentino. Spregelburd ama smontare schemi interpretativi e sistemi valoriali ritenuti assodati e inalterabili, spezzando tanto la consequenzialità quanto l’ordine temporale dei fatti e assottigliando ognora di più il confine fra realtà e finzione. Espedienti, abilmente maneggiati, che mirano a lumeggiare il carattere in fondo inconoscibile delle presunte logiche alla base del nostro inconscio per cui, alla fine, suggerisce l’autore, meglio sarebbe rassegnarsi all’assenza di “senso” razionalmente percepibile e assecondare quanto siamo spinti inconsapevolmente a compiere e, soprattutto, a sperimentare. Una sorta di invito ad abbandonarsi al “dionisiaco” che trova nella seconda parte del lavoro concreta realizzazione: una coreografia in diciassette movimenti – come diciassette sono i guerrieri achei nascosti nel cavallo di Troia ed elencati al termine dello spettacolo – e sviluppata procedendo dal futuro al passato, al rovescio. Una medesima situazione, insomma, ripetuta in una sorta di loop accelerato e accentuatamente comico-grottesco, di cui sono protagonisti personaggi diversi rispetto alla prima parte – Zoraide e suo figlio Eleno, un notaio e un idraulico, Ugo e sua moglie Imene e il poliziotto Merenda – benché interpretati dagli stessi attori, generando così un voluto effetto di disorientata ma immediata sovrapposizione. La scrittura di questo secondo atto vira dunque decisamente verso il nonsense e il pastiche – linguistico e contenutistico, con citazioni da Il giardino dei ciliegi e situazioni comicamente ispirate al giallo hard-boiled – risolvendosi in un copione artatamente dilatato e di impegnativa fruizione per il pubblico che, certo, Spregelburd mira costantemente a “sfidare”, obbligandolo ad abdicare alle proprie sicurezze, anche relative a quanto a uno spettatore si possa richiedere. In questo caso, nondimeno, lo sforzo richiesto alla platea è tutt’altro che indifferente e la fatica avvertita rischia di compromettere gli interessanti stimoli offerti dalla prima parte dello spettacolo.
Diciassette cavallini, nel suo complesso, non può quindi considerarsi un lavoro pienamente convincente - peccando di una certa ipertrofia e, in alcuni frangenti, di un eccesso di enfasi comica un po’ gratuita – e tuttavia è da lodare quale frutto della volontà, assai poco diffusa, dimostrata da Teatro Due di confrontarsi con un linguaggio drammaturgico distante da quello abitualmente adottato, accettando di mettere in gioco pratiche e sicurezze consolidate. E un plauso va certamente agli interpreti, per la maggior parte del tempo impegnati in palcoscenico. 
 
Testo e regia di Rafael Spregelburd. Traduzione di Manuela Cherubini. Scena di Alberto Favretto. Costumi di Giada Masi. Luci di Luca Bronzo. Musiche di Alessandro Nidi. Con Alberto Astorri, Valentina Banci, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Pavel Zelinskiy. Produzione Fondazione Teatro Due, Parma

Visto al Teatro Due di Parma il 23 novembre 2024, nell’ambito di Gradus - Giornate d’autore del progetto Arcipelaghi del Reggio Parma Festival. 

Foto di Andrea Morgillo