Un tradizionale dramma 'conversazione' in un classico anche se molto attuale interno borghese che si scompone, anzi si è già decomposto, quando al fondo deflagra la rivendicazione di un non detto, di un indicibile di cui si fa perturbante testimone il
femminile, che in maniera straordinariamente scandalosa diventa portatore della scissione, già tutta maschile, tra amore e desiderio, tra esercizio 'convenzionale' del sentimento e perturbante abbandono alla forza del corpo/materia.
Mathilde ne è la protagonista in un dialogo confessione con il marito scosso nelle sue presunte certezze, di cui non è oggetto il 'possibile' ma bensì 'l'accaduto', nelle forme concrete di una relazione con un adolescente già penalmente sanzionata dalla Società, e scontata con tre mesi di carcere.
In questa sanzione resta però paradossalmente assente l'individuo, ciascun individuo che quella Società supporta e compone e che in quella condanna trova il modo di evitare di fare i conti con se stesso.
Mathilde torna a casa, in una casa che la scenografia (una scelta apprezzabile quella di Emanuele Conte) descrive abbandonata e in procinto di essere lasciata per altre destinazioni, nelle pareti scrostate e nei pacchi di 'ricordi' lasciati a se stessi; vi trova il marito e l'incontro innesta un serrato confronto.
Ciò che però colpisce in questa scrittura scenica, di una scrittrice che rivela in ogni sua grammatica l'appartenenza ad una élite sociale, è il distacco, la quasi freddezza di un siderale 'esprit de finesse' che cauterizza e allontana, forse proprio in conseguenza di quell'appartenenza, l'oggetto stesso del confronto/scontro, il desiderio quando non è 'iscritto' nella convenzione riconosciuta socialmente ma anche esistenzialmente.
Una ricerca dunque in cui i ruoli si mescolano e che tenta di rispondere alle domande rimaste sospese nel reiterarsi dei gesti e dei mesi di quel loro matrimonio su cui non si sono mai veramente interrogati, un quesito quello dell'Amore (riguardo al quale lo 'scrivere' ha una valenza metaforica essenziale) a cui ancora una volta si è costretti a rispondere con il silenzio.
Eppure forse proprio questa distanza, che prende le vesti snob di una intellettualità molto parigina, mette ancora più in evidenza, nell'assenza, quel sentimento e quel desiderio incapace di elaborarsi e che ancora siamo incapaci di elaborare e da cui dobbiamo tenerci distanti pena la tragedia ovvero la 'caduta' negli inferi del cuore ove la mente non può arrivare.
Come in proposito non ricordare il Nabokov di “Lolita”, di cui la kubrickiana versione cinematografia è una inarrivabile vera e propria 'analisi', ovvero di “Ada o Ardore”, parecchi anni fa messo in scena con efficacia da “Fanny & Alexander”, in cui la scrittura si immergeva senza paura di scottarsi in quel magma incandescente, non rischiando di 'fare' ma per patire prima ancora di poter capire.
Per esprimere un giudizio che non fosse solo la veste più appropriata della nostra paura, dunque, un giudizio siffatto invece in cui sembra talvolta scivolare la drammaturgia di Véronique Olmi, qui nella traduzione di Alessandra Serra, una scrittura qualche volta tanto asettica da apparire un esercizio di conviviale intelligenza anche un po' noioso.
Questa scrittura ha comunque il merito di raccogliere esteticamente un ulteriore passo avanti del femminile che vuole elaborare e ricostruire finalmente in autonomia quella dicotomia desiderio-amore che il maschio ha preso per sé, utilizzandola anche, nella molto tradizionale contrapposizione tra moglie e amante (puttana), per scotomizzare una buona parte della 'passione' (nel suo senso più ampio) che il femminile continua a custodire.
La regia e la messa in scena, comunque gradevoli, fanno i conti con quelli che percepiamo come limiti della scrittura drammaturgica, e con loro anche la recitazione 'costretta' nella prigione di una sintassi molto classica e fin accademica, nella mimica, nella dizione e nella prossemica, nella quale il siparietto 'coreografico' appare più un tributo ad una contemporanea consuetudine, che vuole la compresenza di plurimi linguaggi, che una vera necessità.
Alla Sala Campana del Teatro della Tosse di Genova dal 10 al 15 dicembre. Visto mercoledì 11 in una sala non tutta piena ma che ha applaudito convinta.
MATHILDE di Véronique Olmi, traduzione Alessandra Serra, con Eleonora Giovanardi Luca Mammoli, Regia Alessio Aronne. Scene Emanuele Conte. Disegno luci Matteo Selis, musiche Marco Rivolta. Costumi Daniela De Blasio. Coreografia e movimento scenico Marianna Moccia, assistente alla regia Marco Rivolta. Produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse