Il racconto distopico – ultimamente molto di moda – e la Commedia dell’Arte: un ossimoro, una bizzarria, un giochino intellettuale… Nulla di tutto ciò: Arlecchino nel futuro, il nuovo spettacolo scritto e diretto da Mariano Dammacco, è una sorta
di apologo, indignato e malinconico, sulle possibili derive di una contemporaneità tanto immersa nella corsa al progresso tecnologico, quanto spensieratamente indifferente alle inevitabili conseguenze, solo in parte prevedibili, di quella stessa ininterrotta accelerazione. Ecco allora che la Commedia dell’Arte, alle sue origini specchio beffardo ma fedele delle contraddizioni e dei mali della realtà, diviene vocabolario ideale per ritrarre in maniera certo non documentaria e nondimeno indubbiamente concretamente sonora, velleità e manie contemporanee. Ci sono l’aspirazione all’immortalità – uno dei personaggi, il Vecio, ha ben centocinquantaquattro anni, raggiunti grazie a innumerevoli organi artificiali – e la fissazione per la raccolta differenziata – Arlecchino è stato in prigione per aver buttato la plastica nell’umido, o viceversa… -; l’affidarsi fiduciosi all’intelligenza artificiale e il riscaldamento globale, che ha reso il pianeta Terra invivibile spingendo chi può permetterselo a trasferirsi sulla Luna – non vi ricorda una delle imprese di un ricchissimo, e potentissimo, imprenditore sudafricano?
Dammacco, insomma, rispolvera stilemi e natura anti-sistema della Commedia dell’Arte per raccontare una società che si avvicina pericolosamente alla catastrofe, palesemente incapace di imparare dal proprio passato ma anche superbamente insensibile a un pragmatico – e salvifico – buonsenso. Una verità che l’autore e drammaturgo dispiega in una commedia agra e malinconica che al lieto fine di prammatica sostituisce una conclusione, forse un po’ didascalica, che vuole essere monito a vegliare con attenzione a quanto avviene attorno a noi e a non abdicare mai al proprio fondamentale e razionale senso critico. Ma, andiamo per ordine: la commedia si apre con l’”atterraggio” di una trasparente navicella spaziale che, consentendo anche viaggi nel tempo, ha riportato indietro di cento anni Arlecchino e il Puteo, affinché possano narrare all’umanità quanto avverrà nel futuro. In scena – la navicella sormonta una sorta di semplice palco in legno, mentre su un lato del proscenio una fila di sedie di legno e velluto rosso ricorda la natura anche meta-teatrale del lavoro – prende dunque vita la vicenda, con finale purtroppo tragico, dell’Arlecchino del 2124. Sempre affamato – e proprio di fame morirà – lo zanni è ancora il servo che vorrebbe essere astuto malgrado il fato non lo ami affatto: fa le pulizie nel negozio di un produttore di androidi e, per riuscire a scappare sulla Luna, si sostituisce a uno di essi, destinato dal Vecio al suo Puteo. Arlecchino e il Puteo riescono in effetti a imbarcarsi sulla navicella diretta sul satellite della terra ma, purtroppo, il nostro protagonista non ha ben calcolato la lunga durata del viaggio…
Questa, in sintesi, la trama di uno spettacolo in verità ricco di situazioni e personaggi – interpretati con mirabile esattezza e appassionata adesione da Serena Balivo ed Eleonora Ruzza, il viso nascosto dalle maschere grottesche ed espressive costruite da Renzo Sindoca e Leonardo Gasparri. Personaggi in parte ricalcati sulle figure tradizionali della Commedia dell’Arte – il Vecio è evidente declinazione di Pantalone, l’androide-poliziotto ricorda il Capitano mentre il protagonista combina caratteri del servitore bergamasco ma anche della sua controparte femminile Colombina – e non poteva essere altrimenti; così come rimando alla tradizione è la scelta di una lingua affine al dialetto veneto. Le stesse situazioni in parte riscrivono in chiave contemporanea sipari tipici del genere - Arlecchino inseguito dal poliziotto ovvero ingiustamente importunato -, in parte, però, esemplificano paure e ossessioni attuali: la rimozione della morte a favore della ricerca spasmodica dell’eterna giovinezza ma anche la difficoltà a relazionarsi con gli altri fino a scegliere un consapevole isolamento. Frangenti in cui si esplicita l’intrinseca malinconia che percorre tutto lo spettacolo: esemplare il racconto, da parte del Vecio, della scelta della moglie di accettare il fisiologico deperimento del proprio corpo… Non manca, nondimeno, l’ironia, per quanto “crepuscolare” e disincanta anziché cinica e feroce e, proprio per questo, particolarmente convincente e ficcante. Un basso continuo accompagna dunque lo spettacolo, che, certo, strappa non poche risate eppure procede immerso in una pensosa inquietudine, sul destino dell’umanità ma pure del teatro, che di quella dovrebbe sempre essere specchio critico.
Ideazione, drammaturgia e regia di Mariano Dammacco. Collaborazione alla drammaturgia di Gerardo Guccini. Scene di Mariano Dammacco e Gioacchino Gramolini. Maschere realizzate da Renzo Sindoca e Leonardo Gasparri. Musiche originali di Marcello Gori. Con Serena Balivo ed Eleonora Ruzza. Produzione: Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale.
Visto al Teatro delle Passioni di Modena il 19 dicembre 2024
Foto Matilde Piazzi