Il protagonista di questo spettacolo è un albero, in legno e rami, foglie e radici, posizionato sul palcoscenico. Giuseppe Provinzano, autore e regista di questo spettacolo, ci racconta cosa accade prima e dopo: un albero viene acquistato dalla
compagnia in un vivaio della città in cui va in scena questo spettacolo, viene collocato al centro della scena come elemento fondamentale dell’intero racconto e di tutte le riflessioni, a conclusione delle repliche viene piantato gratuitamente in una delle aiuole o in un parco della città, attraverso una donazione reale. Ma non è tutto: la compagnia Babel -Teatro Biondo, con il sostegno di Spazio Franco, presenta un’importante iniziativa che vede come protagonista l’associazione Treedom. Basta inquadrare il Qr-code stampato sulla brochure e lo spettatore accede al sito Treedom, attraverso cui avrà la possibilità di acquistare o regalare un piccolo albero piantato in varie zone del mondo, potrà conoscere le fasi e la progettualità di questa idea, potrà contribuire alla salvaguardia del Pianeta. Questo processo sarà messo in atto in tutte le città in cui lo spettacolo andrà in scena, ma anche in qualsiasi luogo sia possibile piantare un albero, anche attraverso l’apporto e l’aiuto di scuole ed Enti che potranno accogliere questo spettacolo. La scena accoglie noi spettatori, invece, attraverso un’atmosfera ovattata, che avvolge la platea del Piccolo Bellini di Napoli, luogo in cui il nostro albero-protagonista pone le sue radici dall’11 al 15 dicembre.
L’aria si riempie di nebbia azzurra, fumo denso e avvolgente che scende giù per le scale di accesso alla sala del teatro e invita gli spettatori ad accomodarsi e ad incuriosirsi. Sul palcoscenico i tre attori, Sergio Beercock, Noa Di Venti e Chiara Muscato, osservano l’umanità distrutta all’interno di bolle di plastica, gocce di ossigeno, bolle di sopravvivenza che, roteando, permettono il loro incedere e riflettere sul mondo che è stato e che verrà. Provinzano, autore e attore palermitano, che ricordiamo per l’indimenticabile “GiOtto – Studio per una tragedia”, e per numerosi spettacoli che sono nati e decollati da Palermo e dalla Sicilia e che hanno toccato diversi palcoscenici italiani, anche questa volta intraprende un discorso di grande attualità, secondo una tendenza che ha sempre seguito, sebbene in passato abbia approfondito soprattutto tematiche politico-sociali. La tematica ambientalista, infatti, appare inaspettata agli spettatori che seguono da tempo le sue produzioni, ma conduce inevitabilmente e necessariamente verso interrogativi ormai non più procrastinabili. Lo spettacolo riporta come titolo una collocazione geografica esistente, ossia l’isola di Kiribati, in Oceania: la storia di questo luogo ha destato interesse internazionale, poiché la sua popolazione, a causa del riscaldamento globale, probabilmente nel 2100 non esisterà più ed uno degli abitanti ha richiesto lo status di “rifugiato ambientale” ad una Corte Nazionale. L’immaginario lembo di terra, dunque, ispirato all’immagine dell’isola, ha un’estensione di tre metri per tre metri, così come è costruito sul palcoscenico, la cui superficie è in parte occupata da un albero vero, luogo in cui dovrebbero rifugiarsi i superstiti dell’umanità. Non a caso, anche la brochure riporta una bellissima immagine di questo mondo sommerso dalle acque e dei tre personaggi superstiti, mentre sullo sfondo svetta un albero pieno di foglie. Come è evidente, il numero 3 sembra ripetersi costantemente, numero biblico, numero perfetto, e anche questo spettacolo rappresenta il III atto di un percorso drammaturgico, di documentazione e di denuncia sulla contemporaneità, firmato da Giuseppe Provinzano. I tre protagonisti sono un uomo e due donne, di cui una è una ragazza molto giovane, l’altra è una donna incinta. L’approccio alla distruzione e alla crisi appare diverso perché influenzato da indoli diverse. In una sorta di viaggio a ritroso verso lo status di Australopiteco, l’uomo sembra spogliarsi degli orpelli e della razionalità, ritornando ad una dichiarata lotta per la sopravvivenza, quest’ultima basata soprattutto sulla remissione delle emozioni e dei ricordi. La gestione del sonno è complessa, i tre superstiti vivono su questa minuscola isoletta, cercando di cibarsi di cibo spazzatura contenuto in sacchi recuperati durante la fuga da qualcosa: un’alluvione, una glaciazione, l’acqua sembra riempire e soffocare la terra, donando nutrimento all’unico albero che resiste, che dà ombra e riparo e che si erge, nella sua maestosità, al centro della scena. I tre protagonisti riflettono su temi molto importanti, dalla famiglia, al rapporto umano, ai ricordi, alla bellezza della natura, ai sentimenti, al futuro, in un contrasto costante tra ciò che era prima e che appare nitido nei ricordi, e ciò che sarà in futuro e che sembra offuscato dalla consapevolezza che non sarà. Ci si chiede, durante l’intero racconto, perché i tre non siano ancora giunti al desiderio di morte, di chiusura, continuando a vivere inesorabilmente anche attraverso momenti ironici, divertenti, malinconici, sentimentali. In effetti i personaggi tenteranno una conclusione drammatica, ma lasceranno aperti interrogativi e ferite nella mente degli spettatori, lungo alcune scene intense e commoventi che condurranno oltre il pensiero di fine tragica. I protagonisti sfondano la quarta parete e scendono in platea, sfidano l’ipotetica acqua, l’alluvione, la glaciazione, la desertificazione, hanno necessità di comunicare, di dare speranza: le capsule di sopravvivenza, quelle che ingurgitavano per sopravvivere alla vita che non c’è e che non ha speranza, quelle che ossessivamente cercavano per reprimere i gioiosi ricordi di un Terra florida e colorata, quelle che avrebbero concluso la loro terribile esistenza senza futuro, improvvisamente si trasformano metaforicamente in semi. Ogni spettatore ne accoglie una nella propria mano, pianterà i semi contenuti, comunicherà alla Compagnia cosa è cresciuto. La donna incinta vomita e mette alla luce sacchi di spazzatura, il futuro sembra ovattato come la nebbia che ci ha accolti all’inizio dello spettacolo, forse acqua in evaporazione costante per il riscaldamento terrestre o forse fumo di un mondo che brucia in un eterno incendio. Le scelte musicali e la costruzione della luce appaiono fortemente cinematografiche – come il palese riferimento a “2001- Odissea nello Spazio” - e sono sapientemente curate con grande eleganza, tanto da rendere coinvolgente ed emozionante soprattutto la seconda parte del racconto. Si notano, infatti, dei nodi ancora eccessivamente rigidi tra le diverse parti drammaturgiche poiché sovrappongono numerose tematiche la cui importanza necessita di una trattazione lineare; inoltre emergono differenze di approccio recitativo tra i tre attori, sia per formazione che per esperienza. Come spiega Giuseppe Provinzano, questo spettacolo è un prodotto ancora giovane, che ha dietro le spalle un enorme lavoro di preparazione e di documentazione. Un racconto in continua evoluzione, quasi futuristico, ma così coinvolgente che viaggia e si evolve insieme a noi e al nostro Pianeta. Il fallimento dell’Umanità di cui parla l’autore tenta di reprimere continuamente ogni forma di speranza, ma la necessità di sopravvivenza sembra affiorare costantemente, con profondi squarci di memoria e di luce.
Foto di Rosellina Garbo
LIKE KIRIBATI
Piccolo Bellini Napoli
11-15 dicembre 2024
LIKE KIRIBATI
delirio finale
drammaturgia e regia Giuseppe Provinzano
con Sergio Beercock, Noa DiVenti, Chiara Muscato
luci Gabriele Gugliara
drammaturgia musicale Sergio Beercock
scene Petra Trombini
realizzazione scena Jesse Gagliardi
costumi Vito Bartucca
aiuto tecnico Jean-Mathieu Marie
organizzazione Agnese Gugliara
produzione BABEL / Teatro Biondo
con il sostegno di Spazio Franco