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Le annotazioni che seguono prendono spunto da un articolo del “Corriere della Sera” di questi giorni a firma di Aldo Grasso, L’insostenibile insofferenza nei confronti dei critici. Tale articolo è a sua volta una recensione al volume di Daniel Mendelsohn,

Estasi e terrore. Dai Greci a Mad Men (Torino,  Einaudi, 2024). Le riflessioni dello studioso americano riguardano soprattutto la critica letteraria, ma Grasso ampia la visuale riferendosi all’attività critica in generale.
Perché trovo molto interessante e importante quanto scrive Aldo Grasso ragionando sul libro in oggetto? Può tornare utile a noi che vediamo, scriviamo, critichiamo i prodotti teatrali? E di conseguenza suggerire qualche direttiva utile ai lettori di queste pagine? Io credo di sì, innanzi tutto per la visione del critico come persona che sa coniugare la <<competenza>> con il <<gusto>>; inoltre in un tempo in cui nei social si trovano spesso solo il mi piace-non mi piace, o comunque si leggono giudizi affrettati, impressionistici, superficiali. 
Si pensi anche al fatto che la critica, anche quella teatrale, ha ormai spazi ridottissimi sui quotidiani tradizionali, e quindi trova espressione o nelle versioni on line di Riviste cartacee da diversi anni attive e seriamente organizzate; oppure in siti o blog dove bisogna che il lettore sia in grado di capire quanta <<competenza>> e quanto <<gusto>> emergono.
Infine Grasso, riecheggiando Mendelsohn, si chiede se è davvero utile la critica, rispondendo che lo è per i lettori motivati, anche se costituiscono una “nicchia” culturale, in quanto il critico di valore può orientare lettori e spettatori (quest’ultimi nel caso di opere artistiche dal vivo), rendendoli più consapevoli dei valori estetici e inventivi degli artisti.
Chi scrive ha tentato nei contributi precedenti su Dramma.it di suggerire alcune indicazioni di metodo che aiutano lo spettatore a saper “osservare” la scena teatrale, e perché no anche a saperla criticare, discernendo ciò che è valido da ciò che non lo è, e così via.
Mi piace ora buttar giù uno schema che ritengo in linea di massima utile innanzi tutto a chi svolge attività di critico teatrale, sia che lo faccia da militante, con recensioni di spettacoli a “botta calda”, da pubblicare subito, sia invece che, a botta fredda, ragioni sopra una realizzazione scenica tenendo conto di tutti quegli aspetti, quei suggerimenti, quelle suggestioni che vanno oltre l’occasionalità di un performance scenica. Mi auguro di avvincere e un poco convincere chi leggerà le mie annotazioni rapsodiche e un tantino provocatorie su come vorrei che fosse oggi il fare, appunto, critica teatrale.
Vorrei che fosse assolutamente severo, questo fare, senza alcuna concessione, generosità, simpatia personale.
Vorrei che fosse consapevole delle tecniche, della materialità, della spiritualità, e del “ventre” del teatro, e di tutta la percezione sensoriale, emozionale, che gli artisti teatrali possono, anzi, devono mettere in gioco.
Vorrei che non fosse mai impressionistico: la “poesia” del teatro non consiste in un’aura indefinita e indefinibile che aleggia sullo e nello spettacolo: è invece fondata su processi organici di composizione delle azioni fisiche, comprese quelle che portano all’enunciazione di parole. Il critico deve conoscere tali processi organici: come si formano, si sviluppano, ed entrano nella relazione attore-spettatore. Poi si interesserà alla “cucitura” registica dell’insieme spettacolare proposto agli spettatori.
Vorrei che fosse un po’ pedante: come? Vedendo, il critico, e se possibile, ri-vedendo uno spettacolo, e poi, vorrei che compisse, nello scrivere o ri-scrivere, dei detours che passino dallo spettacolo alla vita, e alla vita della polis, alla società, e così via, per tornare infine allo spettacolo.
Vorrei che il fare critica fosse consapevole che il teatro può esistere anche senza spettacolo, e viceversa (ad esempio, in certe opere di gruppi giovanili ci sono spettacoli, a volte molto pregevoli, ma spesso non c’è teatro come lo si intende in senso novecentesco: non vi è una vera e voluta e consapevole arte dell’attore di teatro, appunto!).
Perché svolgo queste annotazioni rapsodiche e provocatorie (ma fino a un certo punto) sentendo la necessità e l’urgenza di farlo?
Perché le risorse inevitabilmente saranno sempre di meno, e sappiamo che senza l’aiuto della mano pubblica è difficilissimo far teatro.
Per cui, se il critico incontra gli spettacoli dei teatri e delle compagnie stabili, pubblici o privati, non può concedere nulla nel giudicare: tali entità avranno la maggior parte dei pochi denari, per cui DEVONO offrire una vera e necessaria qualità artistica (e culturale), e se ciò non accadesse, il critico dovrebbe  stroncare senza pietà, in assenza di veri risultati artistici e culturali, spettacoli che non meritano valutazioni più che ottime.
Se il critico incontra spettacoli di compagnie private con pochi contributi DEVE essere severo per collaborare alla premialità e al riconoscimento del merito, in modo che, seppur poche, le migliori compagini sopravvivano.
Tutte le altre forme di produzione teatral-spettacolare si dovranno comunque arrangiare: o perché son ricche da sé, o perché riescono ad effettuare ottimi sbigliettamenti, o perché son capaci di assumere inevitabili rischi.
Il fare critica non deve richiamarsi solo al “gusto personale”; il gusto arriva per ultimo, prima bisogna comunque saper riconoscere l’intrinseca poesia teatrale che proviene dal saper fare, dal seguire regole conquistate man mano fino alla fine del Novecento (dai Padri fondatori ai Maestri ancora in vita e in azione da fine secolo scorso ad oggi).
Ma non c’è solo la falsa prospettiva del solo gusto personale: c’è anche quella di chi (ce ne sono diversi di amici che la pensano così) pensa che il teatro abbia la propria spinta originaria e genetica in un testo drammatico, mentre in realtà il testo drammatico, seppur fondamentale, è una delle componenti dello spettacolo teatrale, ed è quella che dura nel tempo perché può restare sulla carta stampata: bene, il critico deve sapere che la poesia teatrale la si può raggiungere oltreché con le parole, anche, e anche solo, con un’azione dell’attore, una luce, un suono musicale, o un intreccio di accadimenti e azioni, e via dicendo.
Il fare critica, da parte dei giovani, esige un approfondimento della storia del teatro del Novecento, tramite libri, materiali audiovisivi, testimonianze, poiché devono accorgersi che molte “invenzioni” e stilemi del teatro chiamiamolo giovanil-sperimentale non sono altro che inconsapevoli rimasticature di esperienze già svolte negli anni Sessanta-Settanta.
Secondo il mio modesto parere le annotazioni fin qui svolte potrebbero ridare nuova dignità e vera utilità a chi vuol dedicarsi anche all’attività critica, finendo inevitabilmente anche a far teatro. Siamo davvero, almeno qui in Italia, ad una svolta storica e strutturale, e non congiunturale: tutti, anche chi fa critica, deve prepararsi a salvare la forma artistica fin’ora chiamata: TEATRO.
Non è la mia una modesta “chiamata all’ordine”, ma semmai al disordine, a rivedere e far saltare paradigmi mentali e comportamentali ormai inutili se non dannosi.
Infine, ricordando quanto ha scritto Ferdinando Taviani, un amico  maestro, dobbiamo “promuovere” , e non ridurre, il teatro “ad eccezione”: solo così, divenendo eccezionale, potrà resistere al dannato spirito del nostro tempo: mi auguro che il nostro sguardo giunga lontano, verso l’orizzonte dell’eccezionalità!
E auguro a tutti coloro che fanno teatro di rasentare e magari raggiungere l’eccezionalità!