Un uomo e una donna, ciascuno nel proprio spazio solitario delimitato da un cono di luce. Difficile comunicare, l’empatia è bloccata dal dolore. Una scena vuota, solo un gigante ledwall e uno specchio sovrastante. In questo spazio dell’anima, lo
sguardo si fissa su un dramma, un incidente d’auto dopo il quale quell’uomo ha perso la memoria. Quella donna è invece determinata a far emergere precisi ricordi, qualcosa che lei sembra conoscere molto bene. In scena al Teatro Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo 14, fino al 9 febbraio), la riuscitissima pièce di Nicolas Bedos si costruisce come una partitura di parole, suoni, luci, video. La regia di Davide Livermore, dopo le esperienze nell’ambito della musica classica e del dramma borghese, riesce a ben annodare i piani di questa storia misteriosa. A partire dal disegno sonoro a cura di Edoardo Ambrosio, che unisce Bach ad Arvo Part, fino alle immagini animate concepite da Livermore insieme a Lorenzo Russo Rainaldi, con le illuminazioni di Aldo Mantovani, in un’atmosfera onirica e cinematografica al contempo si realizza un viaggio di conoscenza di sé, faticoso e doloroso.
La memoria è favorita dal dialogo concitato tra Victor e Marion, ma nessuno dei due riesce a rivelare la propria identità, mentre il gioco si ribalta nuovamente. Il conflitto tra ciò che siamo e ciò che siamo percepiti si complica ulteriormente, l’accettazione di ciò che è stato a volte è tremendamente inconciliabile con il nostro equilibrio interiore al punto di stravolgerlo per sempre.
Lo stile metafisico del tratto registico di Livermore rende questa storia universale e disperatamente tagliente, una sorta di quintessenza del dramma umano che da Edipo ai giorni nostri si smarrisce al confronto con l’abisso del lago del cuore.
Foto Federico Pitto