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Le scritture di Franz Kafka custodiscono una intuizione straordinaria, quasi un'anticipazione quantistica, per la quale l'Universo non è un mondo in sé ma bensì è costituito da infiniti mondi sovrapposti. È il suo, come in Giordano Bruno in fondo

o anche in Shakespeare, un Universo metafisicamente 'gnostico' in cui, esistenzialisticamente e ontologicamente, l'heideggeriano “Dasein” è continuamente e inesorabilmente 'fuori posto'.
C'è al riguardo un episodio assai sintomatico nella vita 'reale' di Franz Kafka medesimo, quando, durante la consegna di un premio aziendale riconosciutogli dalla Società di Assicurazioni per cui lavorava e alla presenza dei vertici aziendali e dei colleghi, una risata attraversò quel serio contesto: era Kafka che non poteva così che riconoscere l'ironia di quella situazione, in essa riconoscendosi con la potenza della sua risata.
La letteratura dell'uomo normale Franz Kafka, con un lavoro ben apprezzato ed una famiglia abbastanza inclusiva, attraversa dunque quei mondi, nella profonda consapevolezza (che talora si fa 'disperazione') di non potersi riconoscere in nessuno di essi essendo sempre inevitabilmente altrove, come la stessa impossibilità di concludere il suo ultimo grande romanzo “Il Castello” in fondo testimonia.
Nella novella “L'indagine del Cane” del 1922 coeva all'interruzione della stesura de “Il Castello”, analogamente a tanti altri racconti in cui protagonista è un animale/uomo, l'io narrante, infatti, più che rappresentarsi in 'un' cane, è 'quel' cane medesimo, in un mondo di cani sul labile confine del mondo degli uomini.
Uomini che appaiono e scompaiono fantasmaticamente, tra cani musicanti e cani aerei, senza poter mai essere afferrati in quanto mai 'compresi', cioè insieme 'capiti' e 'presi dentro' in uno qualunque di quei mondi sovrapposti.
Quale miglior metafora del mondo degli uomini (e di Kafka) attorno al quale gli dei o Dio stesso appare solo per scomparire, lasciandoci come il contadino fuori dalla ben custodita porta della Giustizia e in balia di processi 'incomprensibili' alimentati solo dal senso di colpa per la 'cacciata dal Paradiso'.
Anche il Teatro in fondo è uno di quei rari luoghi in cui si manifestano quei mondi sovrapposti che sono l'Universo, e in cui si mescolano mostrandosi spesso insieme, mimeticamente, nella contemporaneità del 'qui e ora' aristotelico.
“Il Cane”, originale riduzione e adattamento del racconto kafkiano firmata da François Kahn, è in fondo uno di questi esperimenti (l'anonimo protagonista è pur sempre un ricercatore scientifico e talmudico) da 'scena', un esperimento complesso che talora 'scandalosamente' inciampa nella claustrofobica scrittura letteraria, riuscendo così a paradossalmente liberare, estroflettendoli, molti significati introflessi in quella stessa scrittura.
François Kahn è stato, come noto, allievo importante di Grotowski e qui mostra di aver introiettato quel singolare procedimento teatrale che prima affonda nel testo, decomponendolo senza destrutturarlo, e poi, nel caratteristico moto ascensionale che caratterizza l'ultima riflessione del maestro, si libra verso l'alto portando con sé un significare, psicologico, metafisico ed estetico, che è nel testo ma anche nell'attore e in noi spettatori.
Si percepisce così, nello spettacolo, uno strano e non sempre perfettamente amalgamato miscuglio tra immedesimazione e distacco che 'scassina' anche positivamente la continuità narrativa, la quale ha la sua essenza estetica nell'avere quel cane sconosciuto, come la scimmia o lo scarafaggio di altri famosi racconti, un nome che è quello di Franz Kafka.
Il cane del racconto non è, infatti, uno strumento del racconto, bensì è il racconto stesso che, proiettando fuori di sé in sorta di flashback gli 'accadimenti' della sua intera vita, costruisce un esterno che è il suo mondo, anzi uno degli innumerevoli mondi in cui ci capita di vivere ovvero 'non' vivere.
Un bello spettacolo comunque, per scrittura, regia ed interpretazione, tutte a merito di François Kahn, che è come una macchia bianca in un luogo oscuro, è un fuori di sé dalle riconoscibilissime forme del dentro di sé, ma anche uno spettacolo difficile perché sembra non parlarci mai direttamente attraverso l'attore ma indirettamente attraverso il mistero (della e sulla scena) da svelare da soli ma soprattutto insieme.
Il tutto entro uno 'scenario' complessivo ben articolato cui luci, scenografie e ambiente musicale hanno egregiamente contribuito.
Per concludere uno spettacolo di respiro internazionale che avrebbe forse riempito spazi ben più grandi della piccola ma accogliente sala del Teatro Garage di Genova, comunque piena oltre la sua stessa capienza.
Nell'ambito della rassegna “teatro da Salotto” curata, per questa piccola ma intelligente realtà che meriterebbe più attenzione dalla città, da Alessandra Frabetti, venerdì 7 febbraio alla “sala Diana” in unica replica. Molti e convinti gli applausi.
“IL CANE”. Di François Kahn da Franz Kafka, collaborazione letteraria Giovanni Battista Storti. Produzione: Teatro da Camera -Teatro Alkaest. Regia: François Kahn. Con: François Kahn