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«Di intimo c’è rimasto solo…?», la frase è il leitmotiv della pièce – che l’autore stesso definisce “commedia” – del giovane Diego Pleuteri (1998) diplomato nel 2024 alla Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino e con già con un’opera in

repertorio, Come nei giorni migliori, diretta da Leonardo Lidi nella stagione 2022-23 e che sarà ripresa durante quella in corso dallo Stabile di Torino, che la produce. Un talento precoce eppure solido, dunque, quello di Pleuteri, come testimonia anche questo Madri, testo selezionato per Eurodram 2022 e vincitore di una menzione al premio InediTO 2020. 
La claustrofobica e chiaroscurale scena – un tavolo, delle sedie, una poltrona, scatole di cartone, due leggii, vari microfoni e fari – è occupata da una madre, alla ricerca dell’articolo di giornale in cui aveva sottolineato la succitata frase, e dal figlio, venuto causalmente a trovarla. Nulla di più lontano, però, tanto dal dramma borghese quanto da quello psicologico, poiché Pleuteri – ben assecondato dalla regia dell’altrettanto giovane Alice Sinigaglia (1996) – immerge fin dall’esordio i suoi personaggi in una dimensione di surreale anti-naturalismo con qualche sagace pennellata di grottesco nonsense. Non manca, poi, neppure un tocco di ironico e quasi sfidante metateatro, con gli interpreti – gli inappuntabili e affiatati Valentina Picello e Vito Vicino – che, a tratti, di fronte ai leggii, compulsano il copione ovvero commentano tono e convenienza delle battute. Si discute di maionese e salse esotiche; si sfogliano vecchi album di foto che sono occasioni per rievocare controversi episodi del passato; si raccontano sogni incredibilmente realistici e si dibatte sull’impossibilità di sterminare le blatte che infestano gli appartamenti.  Il dialogo fra madre e figlio, inizialmente realistico, penetra progressivamente, per mezzo di lievi ma concreti slittamenti, in una dimensione onirica, in cui convivono e si mescolano atmosfere da thriller psicologico e registrazioni in presa diretta di un inconscio decisamente troppo vitale. Ciò che interessa a Pleuteri, tuttavia, non è tanto un’analisi della psicologia dei suoi personaggi, quanto un’esplorazione ad ampio raggio della condizione di chi, per scelta più o meno volontaria, vive in solitudine. Essere soli significa, necessariamente, non soltanto dimenticare di nutrirsi adeguatamente, come confessano tanto la madre quanto il figlio, ma pensare troppo, immergendosi in una nebbia che non consente di distinguere più i confini fra realtà e sogno, verità e immaginazione. E la solitudine è la condizione esistenziale dei due protagonisti, fragili e “difettosi”, nevrotici ed egotici ma anche acuti e sensibili, curiosi ed empatici: due esseri umani implosi nella propria interiorità e incapaci di riemergere per respirare nuovamente. 
Un testo e uno spettacolo “intimo” – non sveleremo la parola che conclude la frase-leitmotiv, rivelata nel sipario finale – costruito con un’abile alternanza di tonalità drammaturgiche e di atmosfere emotive e capace di scansare l’acquitrino del compassionevole-depressivo, grazie tanto a una matura ironia quanto a un’autentica affezione per i propri personaggi.     

Testo di Diego Pleuteri. Regia di Alice Sinigaglia. Sound design di Federica Furlani.  Scenografia di Alessandro Ratti. Luci di Luca Scotton. Con Valentina Picello e Vito Vicino. Prod.: La Corte Ospitale; con il contributo della Regione Emilia-Romagna; con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”.

Visto alla Sala Pasolini del Teatro Gobetti di Torino il 21 febbraio 2025

Foto di Camilla Morino