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Quando è vero teatro, capita che la parola e la lingua che la parla in scena custodisca con cura il suo senso profondo, un significato che prescinde la stessa narrazione o la vicenda che rappresenta, e che tale senso profondo, di poetica e quindi

anche metafisico in quanto capace di andare oltre quella stessa narrazione, debba essere quasi derubato da un pubblico che è indotto nella sua percezione a farsi complice del drammaturgo.
“Yerma 'a jetteca”, questa nuova drammaturgia di Fabio Di Gesto, giovane e già maturo frutto della migliore tradizione napoletana, è molto di più di una semplice rivisitazione o riscrittura della tragedia di Federico Garcìa Lorca, essendone nel profondo una vera e propria esegesi, capace di carpirne e articolarne in scena il significare più intimo.
Qui la 'terra arida' lorchiana si fa umana e tisica debolezza (questo il significato di 'jetteca'), e diventa una litania sociale quasi apotropaica (“jetteche e pazze, vènono 'e razza” recita uno dei proverbi napoletani che sono tra gli strumenti della scrittura rigenerante di Di Gesto) che espelle Yerma dalla Società facendone una sorta di 'capro espiatorio' di un male sottile, di una sterilità che non è tanto fisica ma soprattutto affettiva e che va dunque espiata pena la fine dei tempi e l'esaurimento delle identità.
Yerma assume dunque su di sé la colpa (ed è bellissima la scena in cui è portata, Santa o Madonna vergine, in cadenzata processione), assume su di sé il peccato senza mai peccare, restando fedele all'uomo con cui mai potrà generare quel figlio che forse è costretta a desiderare, per non perdere il ruolo che ha inesorabilmente ereditato, ma che più profondamente e ancestralmente effettivamente desidera, una spinta che è come l'involontario, indeflettibile e indefinibile stimolo della fame o della sete.
Anche la traslazione linguistica, esercitata con sapienza, è frutto di una comunicazione culturale ed estetica che del rapporto tra la Spagna e Napoli è sorta di cassa di risonanza, molto più nella musicalità del suo suono, del suo essere detta in scena, che del suo essere significante di un significato che va man mano conquistato.
Una traslazione che si nutre anche di immagini (il regista ha sottolineato come molte delle scene rappresentate riconducessero a sue proprie esperienze infantili in quel di Napoli) di cui la scena si fa mediatrice fisica, nella corporeità degli attori e della loro voce e nei loro movimenti, con la nostra stessa memoria, fondendosi in essa e rimescolandola anche oltre la contingenza della rappresentazione costellata, forse proprio per facilitare una più intensa 'fusione', di detti, proverbi e filastrocche che sono strumenti 'tipici', visti anche nella altre sue drammaturgie, della scrittura di Fabio Di Gesto.
Cosi la 'jetteca' a teatro, proprio per la natura profonda del teatro che questa giovane Compagnia e il suo regista drammaturgo mostrano di efficacemente praticare, può mettere in scena, mimandola, la rappresentazione di una fecondità che le appartiene intrinsecamente anche se le è misteriosamente 'impedita', quasi che l'impedimento ne mostrasse una più misteriosa, nascosta e irriducibilmente umana verità.
Quattro gli attori di talento in scena, due uomini e due donne (Maria Claudia Pesapane, Gennaro Rivetti, Miriam Della Corte e Luca Lombardi), attori sempre in scena e mutanti tra un personaggio e l'altro con la sola eccezione di Yerma, di grande qualità recitativa, quella qualità che sa usare la tradizione senza farsene imbalsamare, dalla espressività, nonostante eventi e situazioni così forti da richiamare l'antica tragedia classica, mai fuori misura e con una gestione della voce molto accurata e matura.
La scenografia di Maria Teresa D'Alessio è semplice ma simbolicamente efficace, un po' impressionistica incentrata come è, insieme ai bei costumi di Rosario Martone, sul luogo simbolo della socialità dell'anonimo paese di Lorca, il lavatoio comune su cui man mano si affacciano e sfociano le finestre della casa di Yerma e Juan.
Interessante notare come lo spettacolo non abbia altro ambiente musicale che le voci recitanti e a volte cantanti degli attori, che danno melodia al ritmo sonoro organizzato, come detto, intorno alla reiterazione tipica dei proverbi, delle filastrocche e delle litanie.
Uno spettacolo intenso in cui si precipita, insieme precipitando in noi, quasi inconsapevolmente ma inevitabilmente e che, in questa periferica sala incastonata in uno dei più vivaci quartieri popolari di Genova, mostra gli indissolubili legami di una tradizione teatrale, quella napoletana, capace di interpretare, oltre ogni localismo, sentimenti universali e umanità condivisa, ancora in grado di risvegliare qualcosa che oggi molti vorrebbero fosse dimenticato.
RI.TE.NA Teatro, che lo ha con fatica prodotto, è una compagnia che merita una attenzione molto più ampia di quella che finora le è stata riservata dal Sistema Teatro in Italia, per la qualità non comune delle proprie riflessioni drammaturgiche e delle proprie espressioni sceniche e per l'abilità di combinare la migliore tradizione con la ricerca.
Alla Sala Diana del Teatro Garage di Genova, nell'ambito della rassegna “GET Giovani Eccellenze Teatrali” encomiabilmente e con sguardo assai perspicuo curata insieme alla Associazione “La Chascona” di Genova, sabato 22 febbraio. La piccola sala praticamente piena, moltissimi e convinti gli applausi.
“YERMA 'A JETTECA” testo e regia di Fabio Di Gesto, con Maria Claudia Pesapane, Gennaro Rivetti, Miriam Della Corte e Luca Lombardi. Scene Maria Teresa D’Alessio, costumi Rosario Martone, RI.TE.NA Teatro Napoli.

Foto Dario Fiorentino