Ritengo che rientri appieno nello spirito di questa rubrica rifarsi a quanto recentemente il regista Elio De Capitani, del milanese Teatro dell’Elfo, ha detto all’intervistatrice Federica Manzitti, sul <<Corriere della Sera>> di sabato 8 marzo:
“Le istituzioni romane non sono state in grado di creare un pubblico, come invece è accaduto a Milano. Questo non è all’altezza di una capitale”.
Non è per spirito campanilistico, essendo romano e abitando a Roma, che traggo da queste parole uno spin off la cui articolazione va oltre l’ambiente artistico e teatrale romano, allargandosi alla situazione italiana generale che, come a suo tempo ha ottimamente espresso De Capitani, in gran parte è stata determinata dal decreto-legge regolatore dei fondi per le attività dello spettacolo entrato in vigore ben 10 anni fa, nel 2015. Ma stiamo ai fatti: a Roma sono chiusi teatri “storici” quali l’Eliseo, il Valle, e così pure anche altri numerosi spazi “minori”. Che non ci sia un vero e proprio pubblico teatrale “fidelizzato” io credo che sia assolutamente vero. De Capitani da anni sostiene a ragione che ciò che manca in gran parte del nostro sistema teatrale è un vero e proprio “Teatro d’Arte”, in grado di affrontare in profondità le novità drammaturgiche, anche europee, con l’aiuto di attori in grado di preparare la messa in scena coi tempi di prova lunghi di cui è necessario disporre per un serio approfondimento culturale, estetico, espressivo, a tutti i livelli.
Si, è vero, a Milano determinate realtà ambientali, simili a dei teatri di “residenza”, sono riusciti a coinvolgere e formare e fidelizzare un proprio pubblico, ed è certo che a Roma ciò non si è riusciti a raggiungerlo: a parte rare eccezioni quali il Teatro Vascello, l’India, il Teatro Basilica, e qualche sparuto spazio off off. A Roma, sede di uno dei più consolidati Dams universitari, quello di Roma Tre (dove chi scrive ha insegnato), a mala pena si riesce a vedere per qualche replica il lavoro di ricerca di alcune compagnie giovanili. La regolamentazione della Legge del 2015 ha istituito dei parametri sostanzialmente “quantitativi” nell’assegnazione dei fondi, riducendo al minimo l’impatto della “qualità”, come da anni segnala De Capitani: il decreto non suggerisce nemmeno cosa s’intende per qualità, quali criteri di giudizio essa suggerisce. Inoltre largo spazio finiscono per averlo i Teatri nazionali ex stabili e i Tric (Teatri di rilevante interesse culturale), quest’ultimi, sulla carta, destinati appunto a realizzare operazione di valore artistico alto; ma, senza criteri orientativi in tal senso, le cose sono andate sempre più peggiorando. Afferma De Capitani: <<Ma poi: un parametro che premi i teatri che lavorano sull’allargamento del pubblico ha certo senso, ma andrebbe riformulato in maniera attenta e intelligente: allargare il pubblico significa lavorare sul nuovo, altrimenti vince il teatro di puro intrattenimento. Perché gli spettatori sono tutte persone degne di rispetto e non mi permetterei mai di dire che uno vale più di un altro: ma c’è bisogno di dar peso allo stesso modo nel finanziamento, in un sistema di estrema contrazione della spesa pubblica, al pubblico che affolla Lehman Trilogy, Hamlet Travestie, o Il vizio dell’arte, a confronto con quello del musical commerciale Disney’s Beauty and the beast, ospitato nel cartellone di un teatro stabile? Il decreto non si pone questo problema. Il parametro dell’incremento del pubblico non dovrebbe quindi stare nella cosiddetta qualità indicizzata perché non ha niente a che fare con la qualità, è un parametro quantitativo mascherato, e come parametro quantitativo è pure fatto molto male.>> (in delTeatro.it del 12 maggio 2015).
La situazione romana non è facilmente analizzabile: certo, sommariamente, son pronto a condividere l’idea del regista milanese: un pubblico vero, formato, maturo, fidelizzato non c’è; mi vien da dire che in prima istanza i pochi spettatori prediligono gli spettacoli comici (ma questo non è certo condannabile); scelgono, per risparmiare, la formula dell’abbonamento, innescando così una serie di proposte preordinate a scapito del vero merito di uno spettacolo “d’arte” assimilato, per la durata delle repliche, anche ad altri spettacoli non proprio meritevoli. A Roma, poi, abbiamo assistito alla vicenda davvero irritante della direzione del Teatro di Roma, terminata pochi mesi fa con la nomina di due condirettori, uno artistico e uno organizzativo, e con la norma vigente che quello artistico può fare all’interno della struttura una sola regia, e in più nella programmazione deve necessariamente osservare le direttive del collega amministrativo.
A Roma quasi tutti gli spettacoli, ormai, non durano più di 5 giorni, ed è difficile trovare biglietti in quanto i posti sono in gran parte bloccati dagli abbonati. Nella capitale d’Italia lavori teatrali che tentano di portare temi e problemi con l’aiuto di un valido drammaturgo, magari giovane, sono del tutto sparuti ed emarginati. Il teatro di ricerca è per lo più relegato a vetrine di rapidi Festival o Rassegne, e può sperare di essere ospitato in zone geografiche molto più “mature”, quali l’Emilia Romagna, la Lombardia, l’area napoletana della Campania.
Devo riconoscere che il mio è un po’ uno sfogo causato dalla passione grandissima che ho per l’arte teatrale, appunto, per “l’Arte”, ma a Roma è molto difficile incontrarla, e lo affermo, comunque, in modo molto approssimativo, impressionistico, non avendo dati e statistiche precise in mano; ho solo l’esperienza e la sensibilità culturale cumulate in molti anni, aiutato dallo studio e dalla frequentazione di grandi uomini e donne di teatro.
Mi pare infine che lo spettatore romano si accontenti di attori super conosciuti tramite la televisione, le serie televisive, e le fiction di varia natura; e dove vanno tali attori e attrici lì vanno molti spettatori, migrando da una sala all’altra, sempre che non abbiano naturalmente, un abbonamento fisso in tasca.
Che fare? Cosa attendersi? Cosa sperare? Rinvio, per un tentativo non facile di risposta, al prossimo appuntamento: buona lettura… forse!