La compianta Michela Murgia ha dedicato la sua breve esistenza al linguaggio come potere sessista emarginante. La costruzione di una frase, il genere attribuito ad avvocato e architetto, il commento sulla bellezza fisica anziché sulle capacità
intellettuali, il luogo comune sulle “priorità naturali” di una donna, la scelta di aggettivi per definirla… Un universo di parole che plasmano la realtà. E dove la realtà non si lascia plasmare, dove c’è ribellione a questo stato di idee, sorge un imperativo dall’alto: Stai zitta!
In scena fino al 30 marzo al Teatro Carcano di Milano (corso di Porta Romana, 63), l’efficacissima trasposizione teatrale di “Stai Zitta” (Einaudi), la celebre requisitoria della Murgia sulla drammatica condizione – palese di certo ma spesso strisciante e silente – della mancata parità del genere femminile.
Antonella Questa, Valentina Melis e Lisa Galantini sono tre streghe pop tra ortaggi giganti, poi una candidata maschilista alle elezioni regionali, una madre schiacciata dalla vita famigliare, una donna in trasformazione. Si gioca con i ruoli e con le parole della discriminazione, che è mentale, strutturale prima ancora che pratica e quotidiana. Sono parole eloquenti, spesso pronunciate dalle stesse donne che fanno il gioco degli uomini: vogliono assomigliare a loro come unica via per potersi affermare – così almeno credono. Si gioca col ribaltamento dei pregiudizi del patriarcato, la danza liberatoria diventa il simbolo della rottura dalla gabbia sociale di secoli, si ride amaramente dello status quo e di quanta strada occorra ancora percorrere.
Ne nasce uno spaccato articolato, mai retorico, sempre acuto come ci ha abituati la penna della Murgia. La regia di Marta Dalla Via sceglie lo scarno essenziale, in cui il movimento in scena delle tre attrici – più performer, per le evidenti abilità di governare la scena- è il vero fulcro di narrazione, musica e luci.
E’ un linguaggio teatrale nuovo e antico al contempo. Il teatro nacque per raffigurare condizioni archetipiche dell’animo, scegliendo la narrazione per renderle esplicite. La sfida nella riduzione teatrale di un’opera così densa concettualmente spinge a recuperare questa dimensione antica del fare teatro. Ma c’è la consapevolezza del linguaggio della modernità, con segmenti narrativi brevemente iconici, metafore sociali universali, parole-pietra che palesano anche allo spettatore più distratto la drammaticità della situazione.
Resta l’amaro in bocca, ma anche la sensazione che si possa cambiare le cose a partire dall’attribuzione del giusto peso alle parole. Parole nuove per realtà nuove.