Pin It

La cinquantatreesima edizione della Biennale Teatro, la prima a direzione artistica di Willem Dafoe assistito da Valentina Alferj e Andrea Porcheddu, si configura metaforicamente come un triangolo equilatero costruito nelle sue cuspidi a partire dal

guardare (θέατρον il luogo in cui si guarda) per arrivare al fare poetico (ποιεῖν il produrre, da cui 'poesia”), passando attraverso il corpo (dell'attore), suo centro riconosciuto e imprescindibile anche per andare oltre l'immagine, la virtualità che sembra oggi dominarci.
Così infatti si presenta il nuovo direttore: “Sono un attore. La mia idea non è quella di presentare una retrospettiva del teatro mondiale contemporaneo, quanto piuttosto un' indagine sull'essenza del teatro e sulla presenza del corpo. In un momento storico in cui ci affidiamo sempre di più all'intelligenza artificiale, voglio concentrarmi sull'elemento di resistenza umana: l'intelligenza del corpo.”
Dunque il teatro è concreto, non solo dal punto di vista estetico ma anche da quello metafisico, legandosi irriducibilmente al qui e ora aristotelico, alla presenza che è quella dell'attore ma anche quella dello spettatore la cui 'assenza' annullerebbe il teatro stesso.
Ma questa triangolazione non è solo un intento per così dire teorico, sottolineato significativamente anche nella presentazione del Presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco, ma è una vera e propria 'prassi' che ha informato la costruzione dell'intero Festival, inaugurato il 31 maggio e che si concluderà il prossimo 15 giugno, festival che nella ragnatela di quel 'centro' intercetta la tradizione del teatro non come museo/memoria del passato ma come continuità del suo continuo e fecondo processo evolutivo.
Così il cartellone di Dafoe, e del duo Alferj/Porcheddu, parte dalla sensibilità e dall'esperienza dello stesso Dafoe, che affonda le sue 'tradizionali' radici nelle 'rivoluzioni' di Mejerchol'd e di Jerzy Grotowski e nel fiorire dell'”Off Broadway” degli anni settanta, per aprirsi alla ricerca contemporanea, ai giovani che possono rendere di nuovo pura anche un'arte che tende a farsi mercato, in modo da permettere al pubblico, come scrive lo stesso Direttore Artistico: “di sintonizzarsi su più stadi di rivelazione, più stadi di corruzione, più stadi di istituzionalizzazione. E vedere il teatro non come forma fissa, ma come pratica in evoluzione, che va continuamente messa in discussione e rinnovata”.
E se, dunque, il corpo dell'attore è il centro di questo 'fare' e 'guardare', il cartellone appare orchestrato più che sugli spettacoli, alcuni dei quali all'esordio, sulla personalità, ovvero sulla 'persona' ('persona' è anche la 'maschera teatrale') dei suoi protagonisti, che si alternano ritmicamente quasi, sulla melodia dello sfondo, tra grandi interpreti della scena internazionale, da Romeo Castellucci a Thomas Ostermeier, da Eugenio Barba a Elizabeth Lecompte, e i giovani della “Biennale College Teatro” o quelli dell'Accademia Nazionale di Arte Drammatica Silvio D'Amico presenti, con la supervisione artistica di Antonio Latella, in quattro spettacoli diretti in ordine cronologico da Antonio Latella stesso, Nathalie Beasse, Thom Luz e Alessio Maria Romano.
Mentre a parte dedico specifiche recensioni alle drammaturgie presentate al Festival, mi soffermo qui brevemente su una di quelle della sezione dedicata all'Accademia Silvio D'Amico, riunite tutte sotto il titolo insieme ironico e inquietante di “Wordwordlwar.bomb” (parolamondoguerra), cui ho avuto modo di assistere, ed è stato assai interessante. Mi riferisco a:

QUATTRO STAGIONI PER NON DIMENTICARE
È lo spettacolo diretto da Antonio Latella, tratto dall'iconico e oceanico testo di Karl Kraus “Gli ultimi giorni dell'umanità”.
Rappresentare l'irrapresentabile è certamente una sfida imponente e stimolante non solo di fronte a un testo fluviale (1.000 pagine) ma soprattutto di fronte ad un copione che non è un copione ma una tragedia disarticolata e liquida come un rubinetto aperto che non si può chiudere e che scarica sensazioni e suggestioni che l'ironia della scrittura trasforma in una lingua talmente eterodossa da non appartenere ad alcun genere, teatrale o letterario che sia.
Antonio Latella raccoglie la sfida lasciando, per così dire, che l'acqua scorra e invada il palcoscenico quasi senza porre freni o ostacoli, in una sorta di autoscrittura scenica che si organizza dall'interno per poi esplodere nel corpo degli attori.
È una recitazione 'gridata' perché la stessa narrazione di Kraus è in fondo un grido, il grido di dolore di una Umanità che ha perso la sua umanità come Orlando il suo senno ma non ha nessuna Luna ove recuperarlo, un grido che sale dagli anni della Prima Guerra Mondiale, che sappiamo ne costituisce lo scenario, gli anni del massacro dei giovani europei mentre Potenti grotteschi e maligni con Intellettuali al seguito mettevano comicamente in scena sé stessi, ma giunge fino a noi, ai giorni della nostra umanità che guarda, tra guerre rinnovate e crisi climatica, a quella sua stessa possibile, estinzione, allora evitata, con la medesima tragica inettitudine.
Unica e ultima barriera, forse, la forza della parola nelle battaglie, scrive Latella; “che ancora oggi, in tempi di guerra, si possono affrontare con il potere del dialogo”.
I giovani protagonisti hanno mostrato qualità recitative notevoli in dizione e mimica, attraverso le quali l'essenzialità di un testo complesso e anche doloroso ha saputo trovare nella loro presenza corporea un canale coerente per manifestarsi in scena.
Interessante anche la lunga coreografia a sostegno di una significatività capace di arrivare anche laddove la parola stessa stenta ad arrivare.
Uno spettacolo potente che va oltre la “mise en espace” di fine corso, qual'è istituzionalmente, in cui si rischia talora di affogare perché il fiato viene a mancare ma che è come lo schiaffo che può e vuole risvegliarci dal torpore dell'annegamento.
“Gli ultimi giorni dell’umanità. Quattro stazioni per non dimenticare”. Arsenale, Sala d’Armi A Prima assoluta. Tratto da “Quattro stazioni per non dimenticare” di Karl Kraus. Regia Antonio Latella. Con Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin. Dramaturg Federico Bellini. Scenografia Giuseppe Stellato. Costumi Graziella Pepe. Luci Simone De Angelis. Movimenti Isacco Venturini. Direttore di scena Simone De Angelis, Camilla Piccioni. Assistente alla regia Consuelo Bartolucci. Assistente alla scenografia Laura Giannisi. Coordinamento progetto Francesco Manetti. Organizzazione Brunella Giolivo. Video Lucio Fiorentino. Fotografia Manuela Giusto. Fonico Laurence Mazzoni. Sarta di scena Maria Giovanna Spedicati. Traduzione e adattamento sovratitoli a cura di Matilde Vigna, Edward Fortes. Produzione Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Coproduzione La Biennale di Venezia 

Per chiudere questa mia prima restituzione è opportuno segnalare l'interessante Tavola Rotonda che si è tenuta nella Sala delle Colonne di Ca' Giustinian per il titolo “Biennale '75 – '25: cinquant'anni di nuovo teatro” che è stata utile per puntualizzare lo spirito di questo Festival, nella fusione tra tradizione e innovazione.
Hanno partecipato oltre al Direttore Willem Dafoe, Andrea Porcheddu, Eugenio Barba, Thomas Richards, Giorgio Sangati, Richard Schechner, Sandra Toffolatti, Julia Valery insieme a Satyamo Hernandez, Toby Marshall, Chris Torch del Living, Annie Vasseur “per discutere, confrontarsi, ricordare, spiegare teorie e prassi che hanno segnato il teatro del nostro tempo”.