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Nasce da un paradosso, il regista cesenate presentandolo lo chiama “amore per la contraddizione”, questo ultimo lavoro di Romeo Castellucci “I mangiatori di patate” ospitato in prima assoluta alla Biennale 2025 e in replica, come una installazione, in

tutti i giorni della rassegna veneziana, anzi si potebbe definirlo esso stesso un 'paradosso' in quanto nasce da una intuizione figurativa, quella del famoso dipinto di Vincent van Gogh, per trasformarsi in materia concreta ma afona che si assemblea, come costruita da una stampante 3D, sulla scena, disorganizzata e dolorosa, suggestiva e suggestionante, rumorosa e aggressiva.
Su questa scena vengono gettate manciate di parole slegate e suggestive, quasi provenienti da altri mondi e da altri tempi a fondare una circolare 'eternità' in cui il Tempo scompare e ogni mondo si oscura rarefacendosi, parole disperse eppure misteriosamente coerenti: Caduta, Statua, Fame / Caricatura, Storia, Tre, Affetto, e poi ancora Amico, Cera, Marrone, Christus, Nastro / Lingua Imperii, Stella nera.
È quasi una dichiarazione di impotenza, esplicita quando lo stesso Castellucci scrive anche che “tutto ciò che lega queste parole non appartiene alla mia giurisdizione”, l'impotenza del teatro che sembra aver perso, con la capacità di kantiano giudizio, appunto ogni legittima 'giurisdizione' sul senso (significato o direzione che dir si voglia) di sé stesso, del mondo e degli infiniti mondi di un universo gnostico.
Una dichiarazione di impotenza accompagnata da una strategica ritirata nella materia oscura dell'Umanità, talora illuminata dai lampi improvvisi di una possibile (ma quanto veramente desiderata?) conoscenza e consapevolezza.
Il dipinto di van Gogh è un bagliore che si genera da questa materia oscura, raccontando visivamente di uomini e donne appena emersi dall'oscurità che li circonda, quasi all'esordio di una creazione abortita fuori da ogni 'paradiso'; “Mangiatori di patate” appunto, contadini e minatori che vanno man mano aggiustando il loro sguardo, che sembrava perduto all'origine e al confine del mondo (e del quadro), sul pittore che li raffigura per finalmente rivendicare un'anima, la loro anima misconosciuta ma che vive di 'materia' appena sbozzata.
Scrive il pittore in una lettera al fratello Theo: “Se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti – va bene, non è malsano; se una stalla sa di concime – va bene, è giusto che tale sia l'odore di stalla; se un campo sa di grano maturo, patate, guano o concime – va benone, soprattutto per gente di città”.
Sopra e sotto, dentro e fuori questa suggestione, che è come una frustata, come uno schiaffo in pieno volto, Piersandra Di Matteo tenta una drammaturgia fatta, più che di parole e anche più che di musica e suono, di movimenti, di entrate e uscite dall'oscurità, di lontani presagi e lontane evocazioni, come l'angosciante nudo di donna “stenografante con piattelli labiali” all'orizzonte di un paradiso/inferno, ossessioni interiori (le nostre) e corpi che generano xenoglassie e producono conati verbali e non solo,  mentre le consuete sonorità battenti di Scott Gibbons impediscono ogni pausa, ogni riposo al viandante “sul limitare della selva oscura” o dentro condivisi “Paradisi Perduti”.
È anche una rinuncia, dunque, quella dei corpi in scena, degli attori non più capaci di dare forma alla loro presenza, alla loro 'sostanza', mentre l'artista scenico in questa sua rinuncia, in questo suo quasi abdicare di fronte al mondo, si aggrappa ad una immagine lontana e aliena che lo surroghi nel suo 'conato' creativo.
“I mangiatori di patate” è uno spettacolo itinerante, e perturbante, per venti spettatori alla volta dentro l'antico Lazzaretto di Venezia, su una piccola isola della Laguna, ed è misterioso e criptico, forse oltre misura; è in fondo un viaggio guidato che ha perso la sua guida per strada, in cui cioè ci si sente come Dante se avesse perduto Virgilio.
Ma se l'artista rinuncia a “dirci” come in questo caso, allora forse ci invita a cercare in noi viandanti del teatro la parola che serve, a uno, a ciascuno ma anche a tutti, per mettere insieme abbastanza sassolini per giungere alla meta, ad una qualunque.
Nell'ambito della Biennale Teatro 2025, all'Isola del Lazzaretto Vecchio, dal 31 maggio al 15 giugno. Tra perplessità ed entusiasmo.

“I MANGIATORI DI PATATE”. Di Romeo Castellucci. Musica e voci Scott Gibbons, Oliver Gibbons. Dramaturg Piersandra Di Matteo. Con Luca Nava, Sergio Scarlatella, Laura Pante e con Vito Ancona, Jacopo Franceschet, Marco Gagliardi, Vittorio Tommasi, Michela Valerio. Direzione tecnica Eugenio Resta. Sculture e macchina Plastikart Studio – Amoroso & Zimmermann. Tecnica del palco Andrei Benchea, Stefano Valandro. Tecnica dei suoni Claudio Tortorici. Tecnica elettrica Andrea Sanson. Ingegneria Paolo Cavagnolo. Direzione della produzione Benedetta Briglia. Produzione Caterina Soranzo. Organizzazione Giulia Colla. Realizzazione costumi Carmen Castellucci, Francesca Di Serio.