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Un cerchio (magico?) di bottiglie rotte e aguzze che circoscrive e quasi difende un palcoscenico concepito come un 'ring' in cui combattono il senso e il non senso, il caso ed il destino che su quella casualitità è causalmente edificato, una danza immobile

che intercetta come una rete immersa nel mistero dell'esserci e dell'universo frammenti della nostra identità che cerchiamo di ricomporre, come un puzzle o come un colorato mosaico, senza sapere quale immagine di noi ne uscirà ma, in fondo, ad essa immagine comunque già affezionandoci.
Le 640 cartoline da 7x12 centimetri recuperate in casa di Richard Foreman, famoso regista/attore/danzatore di 'avant garde' statunitense recentissimamente scomparso a 88 anni, e su cui lo stesso Foreman incideva frasi suggerite e a volte imposte dalle circostanze e dalla normalità della sua e della nostra esistenza, sono dunque le tessere di un esperimento (“An Experiment” è il sottotitolo di questo lavoro) che ripopone in scena non un testo ma un modo per costruirlo, un esperimento che riprone la realtà non aristotelicamente 'imitandola' quanto 'ricostruendola' su quel palcoscenico improvvisato che è la nostra stessa vita, altrettanto casuale eppure piena fino all'orlo del nostro destino.
Un modo di essere e di fare teatro proprio delle grandi avanguardie della seconda metà del novecento, dal Living a John Cage, sui cui frammenti proposti da Judith Malina ricordiamo ancora con emozione il bel lavoro di Andrea Liberovici, una modalità intima che Simonetta Solder e Willem Dafoe (che l'aveva personalmente 'vissuta' circa un anno fa a casa dello stesso Richard Foreman) ripropongono con e in questo spettacolo.
Dunque, dentro quel cerchio forse magico di cui abbiamo parlato, una scrivania e due sedie, di cui una a rotelle come fu allora quella di Foreman, e un cumulo di cartoline da mescolare come due mazzi di Tarocchi per attingere, a turno, ciascuno leggendone il contenuto, il destino, un destino che alla fine sembra solo una ridondanza fortuita, un'eco occasionale dentro un mondo sempre più distratto.
Tre turni, come in un rito antico, segnati ciascuno da una piacevole pausa musicale anni '70 e da un suono acuto che ci richiama al nostro compito di fronte alle asprezze e ai dolori, alle gioie e ai desideri dell'esistere.
Ad ogni turno la Soldier e Dafoe si scambiano di posto mostrando, come in un gioco di ruolo, una diversa prospettiva di sé (e quindi anche degli spettatori stessi) al pubblico, raccolto a ferro di cavallo intorno a quel ring animato nello scontro delle parole e delle frasi che le cartoline di Foreman propongono senza l'ambizione di nulla dire e di nulla insegnare, se non il piacere di arrendersi all'assalto fisico dei sensi e mentale delle suggestioni.
Anche qui Willem Dafoe si sofferma su un passato glorioso che profondamente lo riguarda, ed è forse un limite questa sorta di 'passatismo' talora anche un pochino 'noioso', sforzandosi però di porre quel passato glorioso come una domanda ancora 'attiva' di futuro.
Non una 'celebrazione' un po' rituale ma una sorta di tentativo di 'riaccensione' che sottragga l'esperienza teatrale, quella in particolare ma anche le altre in generale, al rischio consapevole o meno di una sua corruzione nelle subdole forme della 'istituzionalizzazione' (il 'museo' direbbe Edoardo Sanguineti).
Tre turni, due in inglese ed uno nella traduzione italiana di Matilde Vigna, ma sempre più fonemi sparsi nell'aria del teatro che semantemi già predisposti, e dunque corrotti, alla nostra interpretazione, per un'ora di spettacolo di, per così dire, drammaturgia casuale e occasionale, un qui e ora portato sperimentalmente alla massima potenza.

All'Arsenale di Venezia, Tese dei Soppalchi, nell'ambito della Biennale Teatro, in prima assoluta il 6 e 7 giugno in due repliche giornaliere. 
“NO TITLE (An Experiment)”. Parole di Richard Foreman. Con Simonetta Solder e Willem Dafoe. Traduzione a cura di Matilde Vigna. Produzione La Biennale di Venezia.