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Ogni volta che il governo di un paese comincia a chiudersi in un atteggiamento conservatore o culturalmente retrivo, se non proprio reazionario, è il teatro il primo a saltare: la sua libertà, il suo essere sostanzialmente centrato sul corpo, la sua

continua tensione a sovvertire e travalicare i confini di ogni forma stabilmente (socialmente, culturalmente, normalmente) accettata. Il teatro, se veramente è libero, fa venire l’orticaria a qualsiasi politica antidemocratica o anche solo tendenzialmente autoritaria. Ciò che sta cominciando ad accadere al teatro oggi in Italia, e già accade abbondantemente in molti altri luoghi del mondo, non dovrebbe meravigliare nessuno. È quanto vien fatto pensare a margine dello spettacolo Jogging scritto, creato, diretto e interpretato dalla artista libanese Hanane Hajj Ali. Una personalità di assoluto rilievo nel contesto della scena teatrale libanese e dell’insieme del teatro arabo contemporaneo. Un’attrice (e drammaturga e regista) che, proprio per questo spettacolo è stata accusata nel suo paese di takfir (empietà, apostasia) e ha dovuto subire divieti e gravi limitazioni al suo lavoro. Non si è fatta intimidire però, ha continuato a proporre Jogging in giro per il mondo. Questa volta in Italia: a Roma (il 24 giugno al Teatro Ateneo),poi in Sicilia, a Catania (al Cut) e a Noto (al Teatro Comunale “Tina di Lorenzo”), e il 2 e il 3 luglio a Napoli, nella Sala Assoli, nel contesto del Campania Teatro Festival.
Di che cosa si tratta? Di un monologo: un monologo bello lungo, corposo, magmatico nel suo dispiegarsi, però ben contenuto nella cornice unificante e viva dei pensieri di una sessione di jogging per le vie di Beirut. Un monologo recitato in arabo e in francese (la traduzione in italiano per lo spettacolo e per la pubblicazione in italiano del testo è della giovane e valente studiosa Daniela Potenza); un monologo intrecciato fitto di miti, racconti, vita e vite, pensieri, dolori, passioni che rendono una vita, la vita di una donna, degna d’essere vissuta. Un monologo che si dispiega raccontando le vicende umane della stessa Hanane (qui personaggio oltre che narratrice) e di altre due donne Yvonne e Zahara e al contempo interrogandosi sul senso del mito di Medea e sulla possibilità che esso possa servirci realmente a leggere la condizione femminile nella contemporaneità e soprattutto nel contesto di un paese medio-orientale come il Libano. Hanane è una guerriera del teatro: non si arrende alla accusa pretestuosa di empietà, trova modi alternativi per continuare a lavorare e mette Medea al centro della sua meditazione. Mentre corre, mentre cura con la corsa mattutina obesità, osteoporosi, depressione. Quindi Yvonne che è una donna delicata, una libanese ben educata: ha un marito che la ama e la rispetta anche se vive lontano per lavoro. Yvonne uccide le sue tre figlie e immediatamente dopo anche sé stessa con una macedonia di frutta, miele e panna montata, cosparsa di veleno per topi. Filma tutto, meticolosamente, tragicamente, ma questo filmato misteriosamente scompare. Scrive una lettera al marito Yvonne, ma Hanane lascia sullo sfondo questo documento privatissimo e doloroso e riporta invece la lettera che Virginia Woolf scrisse al marito prima di suicidarsi. Quale baratro di dolore ha spinto Yvonne a compiere un gesto così imponderabile e feroce? Prima di passare al racconto del terzo personaggio, la narratrice si sofferma a ricordare l’incandescente voce di Medea material di Heiner Muller. A concludere tale segmento la citazione diretta di queste parole: «finalmente sarò me stessa, finalmente sarò Medea, finalmente vivrò». Parole che si rivelano un’ipotesi di senso importante e abbastanza perspicua: il mito non come significato, ma come campo di possibilità in cui natura e cultura si possono incontrare e dare luogo, specialmente al femminile, a una dimensione di vita autentica e autenticamente vissuta. È quindi la volta di Zahara: guerrigliera per amore del suo meraviglioso uomo, del suo Mohammed: a questo amore sacrifica tutto e si fa politica, militante, religiosa fino al misticismo e guerrigliera lei stessa: nel 2006 le uccidono due figli nella guerra contro Israele, nel 2013 muore anche il suo terzo figlio combattendo nel nord della Siria. Ma non c’è alcuna liberazione, nessun carro del sole verrà a salvarla.
La conclusione è un rilancio di umanità militante ed è affidata alle parole della poetessa somalo-inglese Warsan Shire: «...nessuno mette i propri figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra. Nessuno se li sceglie il campo profughi... o la prigione a meno che la prigione non sia più sicura di una città di fuoco. Nessuno lascia la casa, finché la casa non diventa una voce sussurrata all’orecchio che ti dice: vattene, scappa via da me». A questo punto Hanane riprende, circolarmente, il suo jogging. Questa è la vicenda che sostanzia e attraversa lo spettacolo, raccontata integralmente anche se per sommi capi. Che cosa fa la differenza? Che cosa colpisce ed emoziona di questo lavoro? L’attrice sulla scena, la sua forza: la sua presenza poetica, il suo corpo che attraversa – senza smarrirsi - comicità, disperazione, malattia, follia, amore materno, misticismo, vitalità politica e guerriera, fino a farsi mito e a riempire di pensiero e di vita vissuta il mistero ineffabile di Medea.

Noto, Teatro Comunale Tina Di Lorenzo. 22 giugno 2025.
Jogging di e con Hanane Haj Ali. Crediti fotografici di Marwan Tahtah, ideazione, testo, performance Hanane hajj ali, regia di Eric Deniaud, drammaturgia di Abdullah Alkafri.
Luci di Sarmad Louis, Rayyan Nihawi. Co-produzione arab funds for arts and culture (afac) – produzione in collaborazione con Heinrich böll stiftung – mna office (beirut). con il supporto di Institut Français du Liban / The british council / Shams association / Collectif Kahraba / Al Mawred Athaqafy (cultural ressource) / Moussem (be) / Zoukak –  Focus Liban 2016 / Artas foundation / Orient productions / Vatech / Khalil wardé sal.
Crediti fotografici di Marwan Tahtah.