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È un polittico a tre ante, questo “Don Chisciotte ad Ardere” terza e ultima tappa dentro Cervantes di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari e, insieme a loro, della 'polis' di Ravenna e dunque del mondo, ed è anche un teatro 'politico', nel senso

più pieno e profondo della parola quando supera la semplice pratica di 'interessi', ma soprattutto appare il ritorno dei due drammaturghi/attori al loro mai dimenticato (almeno per me) “Teatro Politttttttico”, quello con sette “t”.
Loro stessi lo scrissero a partire dall'etimologia illuminante di polittico che significa “dalle molte piegature”. Se è così con due t, aggiungevano, figuriamoci con sette. Così “ancora più esaltate sono le innumerevoli piegature del reale, non di ideologie i fervidi abbisognano, ma di un pensiero forte, complesso, politttttttico.”
Dunque, come già è acccaduto con Dante e la sua “Commedia” tanto divina quanto la più incomparabilmente 'terrena', il poema/romanzo/mondo di un lontano 'siglo de oro' diventa il mare in cui si immergono due scalcagnati maghi/teatranti (Marcus ed Ermanita) con tutto il loro itinerante carrozzone di sogni e desideri, di realtà e immaginazione, confuse come una magia che riesce sempre anche quando non funziona.
Insieme a loro maschere e attori, spettatori co-attanti precipitati da chi sa dove (dette 'tribù', dalla Francia da Malta e da Rimini) in quel luogo che non 'c'è' ma che esiste solo quando accade, per intrecciare in quel posto le parole, nodi sottili che si legano e si sciolgono come in una rete (“vi farò pescatori di uomini dice il Vangelo ad altrettanto scalcagnati figuranti), l'oggi, un oggi tragico ma in cui conservare e confermare la speranza, nel segno di un comune 'mettere in vita'.
È una nuova “chiamata pubblica” che come nel poema barocco che la ispira e suscita, costruisce archi intorno ai vuoti, e anche ai precipizi della vita, disegnando immaginose traiettorie che quei vuoti spesso riescono a riempire.
È dunque un Don Chiscotte “ad” ardere (basta uno spostamento di lettere per cambiare lo sguardo) e non “da” ardere, perché destinato non ad essere bruciato come in secoli bui che si ripetono, ma bensì è destinato ad accendere fuochi nel cuore e nella mente.
Ma non è tanto, credo, un re-interpretare il presente 'con' le parole di Cervantes, quanto piuttosto è un leggere 'nelle' parole di Cervantes l'oggi che già c'è, semplicemente 'mettendole in vita' incistando l'aulico con il volgare, il basso con l'alto.
Si comincia in cinquanta dal 'castello incantato' di Malagola seguendo, insieme ai due maghi, tre scarozzanti: Roberto Magnani (Roberto del Castillo alias Don Chisciotte), Alessandro Argnani (Aleandro Argnàn de Puerto Foras alias Sancio Panza) e Laura Redaelli (Laura Ross de la Briansa alias Dulcinea) ed è poeticamente alienante il loro entrare e uscire dalla maschera del personaggio a quella dell'attore, con i i suoi chiari e i suoi scuri come di ogni uomo e donna.
Dentro le stanze che attraversiamo a gruppi, affiancati anche da un Commissario (Marco Saccomandi) e da un'ombra che sembra Orson Welles (Luca Fagioli), illuminazioni, suggestioni sospese tra la logica della mente e il sentimento del cuore.
Raggiunti e inseguiti dai reggimenti in cui il coro della polis, come in una antica tragedia, si frange e si rifrange quale onda sulla spiaggia dell'esserci o come in uno specchio che raccontando il nostro corpo ci racconta la nostra anima, passiamo per i giardini 'magici' del cosiddetto “Palazzo di Teodorico”, per poi approdare al Teatro Rasi che svela il mistero raccogliendo i sassi delle tragedie di oggi, da Gaza alle tante guerre e crisi climatiche di un “mondo che sta cadendo in frantumi” come ha recentemente detto il nuovo Papa Leone.
Qui approda e va in scena il teatro, magistralmente anticipato dai disegni del bravissimo Stefano Ricci, va in scena l'anima profonda di quel teatro che nasce dalla pantomina unendo sacro e profano, singoli e 'folla', dai misteri medievali alla commedia dell'arte fno alle avanguardie del novecento.
Quel teatro che è nella storia, ed è la storia degli innamorati Costanza e Basilio (bravissimi i due  giovani interpreti) e del vecchio e ricco Camaccio che li insidia, ed è un richiamare alla 'speranza' nonostante tutto e nonostante la disperazione di futuro che sembra attanagliare le giovani generazioni, come dimostrerebbe anche la crisi demografica (i figli sono il futuro e se il futuro non c'è ...).
Uno spettacolo che, lo suggerisce lo stesso Martinelli, cerca di unire nel simbolo della croce il verticale della metafisica (come non ricordare quel Grotowski che emerge in tanti lavori di Marco ed Ermanna) con l'orizzontale della politica, saldamente inchiodati.
Marco Martinelli e Ermanna Montanari concepiscono qui, con efficacia, una scrittura non solo plurilinguistica, tra dialetto e lingua, ma soprattutto una scrittura polisegnica, che come ogni orchestra fatta di persone, diventa polifonica di una polifonia che le musiche dal vivo, dall'antico al moderno, traducono nei suoni senza parole dello spirito.
Bene la regia che questa polifonia ha guidato, bravi gli attori 'professionisti' e i tecnici delle Albe e bravi i cittadini (termine bellissimo che purtroppo sembra destinato alla rottamazione come la Rivoluzione che l'ha concepito. Oggi si preferisce dire la 'gente') partecipanti e insieme 'costruttori'.
A Ravenna il 1° luglio. 

“DON CHISCIOTTE AD ARDERE. Ideazione, spazi architettonici, drammaturgia e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari. In scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Fagio, Marco Saccomandi e le cittadine e i cittadini della Chiamata Pubblica. Musiche LEDA, commissione di Ravenna Festival, electronics e sound design Marco Olivieri, scenografia Ludovica Diomedi, Elisa Gelmi, Matilde Grossi, disegno dal vivo Stefano Ricci, costumi Federica Famà, Flavia Ruggeri, disegno luci Luca Pagliano, direzione tecnica Luca Pagliano, Alessandro Bonoli, Fagio, direzione organizzativa Silvia Pagliano, Serena Cenerelli. Disegno e grafica Stefano Ricci. A Ravenna dal 25 giugno al 13 luglio Palazzo Malagola, Palazzo di Teodorico, Teatro Rasi. Coproduzione Albe/Ravenna Teatro, Ravenna Festival e Teatro Alighieri in collaborazione con i Musei nazionali di Ravenna e con Opera di Religione della Diocesi.

Foto Silvia Lelli