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“Kilowatt”, 'inventato' e tuttora, dopo molti anni, diretto da Lucia Franchi e Luca Ricci è, come suole dirsi e come molti altri noti e meno noti, grandi e meno grandi, un festival del 'territorio', ma è anche qualcosa di più di un semplice festival del 'territorio'.

Innanzitutto è stato pensato, e di conseguenza titolato, come 'energia' che scorre dentro quel territorio, energia però non prevalentemente convogliata con grandi elettrodotti da lontani lidi, quanto energia cercata, come rabdomanti, e che sgorga prodotta da quel territorio stesso, semplicemente organizzata, insieme, e dispiegata come una vela che cerca di intercettare pensieri e suggestioni che l'altrove artistico e in particolare teatrale lancia nel cielo come un codice a tutti destinato.
Poiché le metafore, estetiche o psicologiche che siano, non sono mai neutrali, quel suo così chiamarsi è, come direbbero i latini, un “nomen omen” che spiega un'origine e soprattutto indica una prospettiva, ed è alla fin fine un 'omen', appunto un presagio positivo in un contesto, quello del teatro italiano soprattutto, non certo luminoso.
Ma è proprio di questo che parlano, Lucia Franchi e Luca Ricci nel presentare questa edizione del 'loro' festival, e lo fanno citando 'consapevolmente' un verso di una poesia scritta da Albert Camus nel 1954 e che riportiamo:
“In mezzo all'inverno, ho scoperto di avere, dentro di me, un'invincibile estate”.
Questo il titolo (e la dedica) di questa ventitreesima edizione, che vuol dire che la speranza della nostra umanità, anche dentro una Umanità che sembra perduta tra guerre, violenza, disparità e 'dissolvente' virtualità, è 'dura a morire', anzi è più che resiliente, mostrandosi una volta ancora 'irriducibile'.
Intanto, come direbbe Marco Martinelli, “Kilowatt Festival” ha “piantato un melo” sulla collina di Sansepolcro, in fondo alla Val Tiberina, e continua pervicacemente ad annaffiarlo, ed è un melo che mostra di saper ancora donare frutti ad una età 'arida'.
Ciò che infatti distingue questo Festival da altri festival del territorio, altrettanto belli, è che il suo legame con esso non è solo di ospitalità e accoglienza, è al contrario un legame binario che dà ricevendo, poiché quel territorio lo attraversa come, tra due poli inseparabili, una rete a corrente elettrica 'alternata'.
È di Kilowatt, ad esempio, l'ideazione del gruppo dei Visionari, non un semplice anche se ampio gruppo di lettura od una giuria 'diffusa', ma piuttosto un movimento che sa stimolare e produrre il nuovo, nel teatro in genere e in quello di ricerca in particolare, non solo 'selezionandolo' ma anche, per così dire, 'accudendolo'.
D'altra parte e contemporaneamente questi 'Visionari' fanno fermentare la comunità, quella propria ma non solo, facendosi lievito di potenzialità, sociali, culturali e anche esistenziali, in essa comunità nascoste e in molti casi destinate altrimenti a 'disseccarsi'.
Si può dire che, i Visionari, siano diventati una sorta di 'alter ego' del festival, eguale ma diverso, e che così, realizzando in fondo anche una 'visione' dei fondatori, abbiamo trasfigurato anche lo stesso Festival che li ha 'inventati'.
Tutto questo non ha prodotto solo esiti culturali ed artistici, spesso di notevole qualità, ma soprattutto ha messo in moto l'intera macchina di quel territorio, nei suoi aspetti sociali e anche economici, incentivando iniziative e realizzando aspettative.
L'uno nell'altro, l'uno con l'altro.
Kilowatt mi ha con cortesia ospitato per qualche giorno. Quelle che seguono sono brevi note di critica teatrale di testimonianza.

RESTA / De-Mens Théatre - Elena Borgogni.
È uno degli spettacoli scelti dai visionari ed è un muoversi freneticamente, agitarsi al ritmo di un tango metafisico per restare sempre nello stesso punto in un eterno ritorno che non è mai neanche cominciato. È il destino della famiglia, talmente patrilineare da andare oltre il patriarcato stesso, protagonista di questa drammaturgia scritta e diretta da Elena Borgogni, e per così dire bilingue ma non biforcuta. Una sorta di schema di gioco, da cui il femminile e il materno sono praticamente coartati ed esclusi, che dovrebbe trasmettere al figlio e poi al figlio del figlio, l'idea della vita che il capostipite incarna ma che è, come in tutte le migliori 'intenzioni', una strada lastricata per l'inferno, una sequenza di cause i cui effetti sono inevitabilmente diversi se non opposti da quelli desiderati. Qualcuno ricorderà la bella drammaturgia degli anni sessanta del '900 “Una famiglia normale” di Dacia Maraini, che ci viene alla mente, seppur nella grande diversità di scrittura, per l'idea della 'trappola' senza vie d'uscita che, anche qui, sembra essere la più azzeccata metafora per una istituzione sociale in perenne crisi ma apparentemente insostituibile. Nel complesso un buon spettacolo anche se, nella sua frenesia, sembra in parte non pienamente 'risolto' nella scrittura e nella messa in scena. Bravi i quattro protagonisti pur nella difficoltà di districarsi, tra italiano, francese e sottotitoli. 
RESTA! Testo e regia Elena Borgogni, con Elena Borgogni, Jérémy Braitbart, Angelo Romagnoli, Sebastien Weber, assistente alla regia Alex Ryder, disegno luci Danilo Facco, musiche originali music Julien Jelsch, sopratitoli Franco Vena, produzione e diffusione Katia Dalloul, coproduzione Théâtre Romain Rolland – Villejuif (FR), con il supporto di Fondazione Nuovi Mecenati, Centro di residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Nuova Accademia degli Arrischianti – Sarteano, Teatro Ciro Pinsuti – Sinalunga.
Al Teatro alla Misercordia, Martedì 15 luglio.

JAMES / Compagnia Licia Lanera (foto Manuela Giusto)
In prima assoluta il Festival ha proposto l'ultima fatica di Licia Lanera, tra drammaturgia, regia e interpretazione, concepita a detta dell'autrice stessa ai tempi dei Lockdown e quindi alle prese con le problematiche del tempo (soprattutto quello intimo e agostinianamente psicologico) che si fanno evidenti quando il tempo sembra fermarsi. Ma io credo che la vera domanda che emerge dalla messa in scena sia un'altra, anche se collegata, ed è molto pirandelliana e non solo kantoriana. La domanda è: “C'è vita in teatro?”. Domanda all'apparenza banale (certo che c'è vita, ci sono gli attori, i registi, i tecnici ecc. ecc.) ma in realtà sfuggente perché al fondo riguarda il concetto stesso di mimesi drammaturgica, diviso tra immedesimazione e alienazione. Così la scrittura di Licia Lanera sembra girare ed avvitarsi in un dialogo tra sordi in cui l'interlocutore racconta di essere diventato, avvocato, dirigente, professore e altro e la protagonista risponde sempre “Io ho fatto teatro” come se fosse 'altro' dal vivere. Alla fine il frutto della vita non può che essere, qui come nel collodiano pinocchio, un burattino di nome James, immaginazione che però mai si trasformerà in bambino. È una forma assai particolare di teatro nel teatro che la tagliente scrittura della Lanera quasi disseziona, in bilico tra alto e basso, tra lirico e artuadianamente crudele, il tutto con molta e consueta 'ironia' che smaschera e rivela. Bravi tutti i protagonisti dentro una scenografia tanto semplice da apparire 'disarmante'. Uno spettacolo interessante, nuovo e dunque ancora passibile di miglioramento.
JAMES. Drammaturgia, interpretazione e regia Licia Lanera e con Monica Contini, Mino Decataldo, Danilo Giuva, Nina Martorana, Ermelinda Nasuto, Andrea Sicuro, Lucia Zotti, organizzazione Andrea Sicuro, luci Max Tane, costumi Angela Tomasicchio, marionetta Michela Marrazzi, assistente alla regia Luca Lo Vercio, tecnica del suono Laura Bizzoca, co-produzione 369gradi con il sostegno di ERT- Emilia Romagna Teatro, Sicolo Arredamenti.
Al Chiostro di Santa Chiara, Martedì 15 luglio.

BOVARY / Stefano Cordella (foto Del Pia)
Ispirato all'immortale romanzo di Gustave Flaubert, lo spettacolo di Stefano Cordella nella bella drammaturgia di Elena C. Patacchini, ci dimostra una volta di più che Bovary ormai non è più un cognome ma è diventato una sorta di mito moderno, un vero e proprio 'luogo' della mente e dell'anima umana che va oltre anche la stessa idea derivata di “bovarysmo”, nelle sue innumerevoli declinazioni sociali, psicologiche, estetiche e infine, perché no, metafisiche. Siamo infatti dentro al mondo della relazione universale ma ancora molto patriarcale tra uomo e donna, ed è ormai superato anche il quesito se il bovarysmo sia una malattia dell'anima del femminile ovvero dell'anima del maschile, essendo in fondo l'incontro, anzi un non incontrarsi e un non comunicare tra l'uno e l'altra che produce 'infelicità'.  Disillusione è il desiderio che non si realizza, ma in questo/questa Bovary è il desiderio dissociato che punta ad obiettivi, espressi o inconfessati che siano, destinati a mai 'soprapporsi' e 'unirsi'. Anche questa narrazione scenica, come lo stesso racconto di Flaubert o il famoso e forse dimenticato film di Claude Chabrol, non sono dunque che realizzazione 'linguistiche' di un movimento interiore che come un fiume carsico scorre dentro di noi, talora emergendo. Lo scenario è in questo spettacolo la modernità borghese con i suoi riti che, invece di accendere, sembrano spegnere inesorabilmente il sentimento della vita, in bilico tra una fintamente rassicurante mediocrità ed il desiderio che vuole superarla, nell'uno e nell'altra, nel maschio e nella femmina, in una lotta che alla fine, come in Flaubert, tutti sopraffà lasciando solo le macerie di una casa abbandonata. Lo spettacolo sa rendere con efficacia queste convergenze parallele ma soprattutto la sorda ostilità che talora si impadronisce di ogni Dottor Bovary, come ha suggerito spesso la psicoanalisi, che suscita e spegne in Madame ogni illusione spingendola, anche se non l'uccide fisicamente come purtroppo troppo spesso accade, alla morte. Icastica al riguardo, e proprio per questo, la scena della Pizzeria, in un mimetismo che richiama le teorie del triangolo mimetico di René Girard. Bravi entrambi i protagonisti, Pietro De Pascalis e Anahi Traversi, ma soprattutto brava questa moderna Madame Bovary che nella stessa presenza scenica mostra il lampo di un desiderio di vita destinato a spegnersi. Ben scritto e ben messo in scena in anteprima.
BOVARY da Madame Bovary di Gustave Flaubert, ideazione e regia Stefano Cordella, drammaturgia Elena C. Patacchini, con Anahì Traversi e Pietro De Pascalis, scene Marco Muzzolon, costumi Giulia Giovanelli, disegno luci Fulvio Melli, suono Gianluca Agostini, assistente alla regia Marica Pace, delegata di produzione Susanna Russo. Produzione Manifatture Teatrali Milanesi.
Al Teatro alla Misericordia, Mercoledì 16 luglio.