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Confrontarsi sulla scena teatrale col romanzo ottocentesco è una impresa da far tremare i polsi, eppure c’è una fitta presenza di spettacoli tratti da questo genere letterario sulla scena attuale, ovviamente con approcci e risultati diversi e di livello

diseguale. Talvolta ci s’imbatte in polpettoni indigesti, talvolta in letture raffinate e profonde. Questo genere di narrazione rappresenta per molti versi la quintessenza del romanzo ed è presente nella cultura media, nell’esperienza estetica e nella memoria scolastica di molte persone. Si gioca insomma in un campo di senso condiviso complesso, datato, molto stratificato, sicuramente difficile. C’è poi una difficoltà reale che consiste nel passaggio di genere, da narrazione a dramma: un lavoro di concettualizzazione, di drammaturgia e di formalizzazione estremamente difficile, perché non si tratta della versione automatica di tempi, persone e ambienti, ma della capacità di trovare dentro il flusso narrativo l’azione, o anche un’azione, esatta su cui verificare e costruire la possibilità di un dramma. C’è da ribadirlo: è un terreno di ricerca teatrale molto difficile e per questo si resta felicemente stupiti quando ci s’imbatte in uno spettacolo che riesce a risolvere in modo convincente questo rebus. Ci riferiamo in questo caso a “Capinera” uno spettacolo di e con Rosy Bonfiglio (qui drammaturga, regista e attrice) ricavato, con intelligenza di lettura e capacità costruttiva, dal romanzo epistolare di Giovanni Verga (del 1869) “Storia di una capinera”. La vicenda è presto detta: una novizia di nome Maria, a causa di un’epidemia di colera scoppiata a Catania, trascorre un periodo spensierato di vacanza nella casa in campagna del padre/padrone. In questo periodo conosce con stupore e pulizia interiore i piaceri della vita, è travolta da una felicità concretissima e luminosa e s’innamora (tra meraviglia, tremore, angoscia) di Nino, il figlio di una famiglia di vicini di casa. Si tratta di un amore impossibile, di una vicenda lacerante: il padre e la matrigna, stroncando ogni minima speranza, costringeranno la ragazza a ritornare in convento e prendere i voti, Nino dovrà sposare la sorella di Maria e Maria, a sua volta, finirà la sua vita nella follia. Cosa poteva diventare teatro di questa vicenda? La punizione inflitta seccamente a una giovane donna per essersi innamorata della vita e appropriata della libertà – evento inimmaginabile per una donna nella cultura dell’ottocento siciliano - di decidere da sola per sé stessa. Il passaggio da uno stato di felicità massima e luminosa a uno di cupa prostrazione che uccide la giovane donna. Questa azione violenta subita da Maria (raccontata epistolarmente alla amica Marianna, ma in scena vissuta, incarnata, attraversata ansimando) non viene proposta in un contesto di ricostruzione filologica dello spirito romantico del romanzo, ma per quel che è: un gesto violento, un rapido fendente che precipita la protagonista da una luce di gioia accecante (quasi un’immagine campestre fissata nei colori di Van Gogh) al buio freddo e totale, che spegne ogni speranza di felicità, toglie il respiro, non concede scampo, non lascia altro che la morte appena preceduta da uno sbocco nero di follia. E tutto questo, spogliato di ogni cascame simbolico ottocentesco (niente gonnelloni e crinoline, niente palpiti), viene stilizzato rigorosamente in pochi effetti e oggetti di scena (le musiche, il disegno luci, una gabbietta da uccellino, l’intelaiatura a gabbia di una gonna), è focalizzato registicamente nel corpo di Maria e accade per mezzo di una prova d’attrice solida e meditata, con un approfondimento vertiginoso di senso che rende automaticamente (e felicemente) il tutto credibile, assoluto e contemporaneo. Contemporaneo perché risuona, senza alcuna retorica e senza parole d’ordine più o meno usurate, di vita, oppressione femminile e lotte di ieri e di oggi. Non ci sarebbe stato quasi bisogno d’altro, non ci sarebbe stato bisogno della sonorità siciliana della lingua di Maria (oggi purtroppo è un elemento pop e molto scivoloso) seppur accennata e sempre gestita, dei richiami sonori alla lotta di liberazione delle donne iraniane o dei pur bellissimi riferimenti a De André o ad Alda Merini. Sono elementi esterni al dramma di Maria, ma non inficiano la potenza d’insieme di questo spettacolo interessante e convincente.

Noto, Festival “Codex”, tredicesima edizione, dal 22 agosto 2025 al 12 ottobre, direttore artistico Salvatore Tringali. 12 settembre 2025, Teatro comunale “Tina Di Lorenzo” Noto. “Capinera”, scritto, diretto e interpretato da Rosy Bonfiglio; musica di Angelo Vitaliano; luci di Stefano Mazzanti. Produzione: “La memoria del teatro ETS”.

Foto Cristina Valla