Genova dedica meritevolmente anche quest'anno, con una evidenza particolare nel decennale del doloroso e tragico G8 del 2001, una settimana al tema dei “Diritti” dal 7 al 14 luglio, avendo invitato ed ospitato non solo esperti di diritto, politica internazionale o persone direttamente impegnate e personalmente coinvolte nella difesa della dignità umana e nella sua testimonianza
ma anche, come di consueto, artisti. È questo, credo, un elemento di dirimente importanza in quanto riconosce all'arte quella capacità di riflettere come in uno specchio ed elaborare le domande più profonde della collettività e delle singole esistenze. Ieri, 12 luglio, è stata la volta di Paola Bigatto e di questa sua intensa drammaturgia che, più che riduzione e adattamento, è una rilettura nella dimensione prospettica della scena delle riflessioni di Hannah Arendt, raccolte nell'omonimo libro e, a loro volta, maturate dalle sue osservazioni nel corso del famoso processo al criminale nazista Adolf Heichman, strappato dal Mossad Israeliano al suo rifugio argentino e processato e condannato a morte dalla giustizia israeliana nei primi anni 60 del novecento. Arendt, filosofa allieva di Heidegger e Jasper e membro importante della diaspora ebrea dalla Germania agli Stati Uniti, si pone di fronte al processo ma il suo sguardo attento e profondo ne supera spontaneamente i confini della semplice e arida giuridizione (“è l'imputato colpevole ai sensi della legge?”) per inoltrarsi nei più generali temi della responabilità morale personale quale fattore di autonomia, indipendenza e ribellione. Il suo pensiero in un certo senso si sofferma, tra lo stupito e l'indignato, di fronte alla capacità che ha la menzogna anche della Legge di manlevare il singolo assolvendolo dalla naturale esigenza del giudizio e della scelta tra il Bene e il Male. Il potere che, nota acutamente Harendt non potrebbe mai reggersi con la sola costrizione, usa la parola menzognera organizzata in struttura politica, in un certo senso legittima e legittimata quindi apparentemente legale, non per costringere il singolo al male, ma bensì per consentirgli di esercitarlo 'banalmente' senza coinvolgimento etico. Per questo i suoi più efficaci esecutori sono coloro che sono 'educati', e Heichman na appare man mano come esempio essenziale, all'assenza di giudizio, kantianamente inteso, cioè all'assenza di pensiero, coloro cioè (i meno colti o i più 'idioti') che in fondo non chiedono altro che il non giudicare, il non pensare, il non scegliere, quindi obbediscono non per costrizione ma per adesione passiva, per 'assenza'. Il conflitto dunque non è vinto o perduto, ma semplicemente rimosso ed è questo per Hannah Harendt il nucleo della responsabilità tedesca nell'evolversi, fino alla “soluzione finale”, della questione ebraica. Questione complessa quella affrontata da Arendt e ricca di riferimenti; ad esempio come non pensare ad una suggestione antica quale quella suggerita dall'elaborazione sofoclea dell'Antigone. Complessa e, in senso lato, 'politicamente' sgradita ed in effetti l'aver coinvolto nelle sue riflessioni anche gli atteggiamenti e le scelte sia della comunità ebraica europea, così duramente decimata, che quelli del nuovo stato di Israele, in cerca di una legittimazione profonda a partire proprio dalle radici dell'olocausto, costò alla filosofa tedesca non pochi problemi con l'emigrazione ebraica negli Stati Uniti, mentre nella Germania Federale il suo impatto provocò finalmente l'avvio di una contraddittoria riflessione collettiva (nei tribunali e nella cultura) sul nazismo. Paola Bigatto è di fronte a tutto questo, ad un pensiero che si allarga nel tempo della storia e nello spazio dei giudizi etici, e riesce nella non facile opera di ricostruirne il percorso e la complessità con una narrazione drammaturgica che supera anch'essa i confini del semplice teatro di narrazione, appunto, e che carica e quasi risolve nella peripezia e nel suo transito fisico nella dimensione scenica l'intero insieme degli elementi di una piena teatralità. Negli spazi a tutt'altro deputati del salone d'onore del comune di Genova, la sua parola drammaturgica, organizzata e coerente già nel testo letterario, costruisce così i suoi spazi e crea i propri tempi con effetto straniante che va oltre l'epos per diventare suggestiva metafora di un tempo lontano ma, forse mai, così contemporaneo. Al pari della efficacia drammaturgica, la sapienza attoriale della Bigatto innerva, dando carne e sangue quasi con l'effetto cinetico di un 'miraggio', la narrazione conferendole piena prospettiva sia spaziale che temporale. Uno spettacolo importante dunque, che già ha avuto repliche numerose soprattutto nelle scuole e del cui successo la Bigatto fa partecipi anche altri che direttamente o indirettamente hanno collaborato, importante sia per il contenuto della narrazione, che ha richiesto più parole del consueto, sia per la forma drammaturgica rivisitata con grande originalità ed efficacia. La sala era stipata ed il pubblico ha mostrato un calore raro che aveva anche la suggestione di un ringraziamento. Una ultima parola per la straordinaria ospite che ha chiuso la serata, il candidato nobel per la pace di quest'anno, Yolande Mukagasana, che ha saputo con parole semplici ma commoventi rileggere nella sua vicenda, l'orrendo genocidio in Rwanda, i temi che tanti anni prima Hannah Arendt ha posto alla nostra attenzione, ove, testardi, rimangono.
La banalità del male
- Scritto da Maria Dolores Pesce
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