Nella seconda parte dei suoi dieci giorni di vita, la quarantunesima edizione di Santarcangelo dei Teatri, diretta quest'anno, nel terzo della triade dei creatori del teatro di ricerca romagnolo, da Ermanna Montanari, una Ermanna che sembra diventata parte di questo 'suo' organismo, appare in piena e pulsante crescita.
Dicevo di Ermanna persa o solubile in questo organismo, perchè questa volta, come credo sia nella più profonda e antica natura di un evento così particolare, il rapporto tra arte scenica, nelle sue più diverse articolazione, e 'luogo' va oltre un semplice rapporto di ospitalità, una semplice funzione di accoglienza in reciproca separatezza, per attivare una dinamica di inclusione straordinaria, in forza della quale luoghi e teatro non 'convivono' geograficamente ma si amalgamano esteticamente, reciprocamente legittimandosi come produttori di senso in una sorta di sintassi fatta di parola, significato, suggestione e movimento, movimento che sembra appartenere alla stessa urbanistica superandone la statica ed esaltandone l'intrinseca e paradossale cinetica. In un certo senso il teatrro a Sant'arcangelo si trasforma, man mano ma con forza crescente, in un lievito che dissoda e feconda. Un lavoro di recupero straordinario, quello della Montanari, per il quale il teatro assume dunque il significato di articolazione vitale di una comunità, di un polis che è persone ed esisitenze, ma è anche la loro storia man man mano accumulata e stratificata, in una tettonica della mente e dello spirito, nei castelli, nei palazzi e nelle vie che li congiungono. All'interno di questo 'spirito' più generale, i momenti delle rappresentazioni, degli spettacoli o delle performances si aggregano come precipitazione di senso, gorghi che continuamente si formano e si sciolgono in questo fiume che scorre nello spazio e nel tempo del festival. Qui sono entrata, e il termine mi appare appropriato, giovedì 14 luglio, con il primo spettacolo, una interessante drammaturgia/peripezia intorno all'eros.
AMABO TE
Di e con Camilla Lopez e Alice Merenda Somma, allieve delle Albe e di Ermanna Montanari, e liberamente tratto da Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, conduce un piccolo gruppo di spettatori esploratori, siamo in effetti all'interno del Museo della gente di Romagna, in una indagine intorno alla metamorfizzazione, alla somatizzazione delle parole che cercano di dire l'eros, l'eros femminile soprattutto nel suo mistero di fronte allo sguardo soprattutto maschile, in uno sforzo di trasfigurazione corporea, di slancio e di caduta, di fuga e di intrigante intromissione proprio dentro quello sguardo che cerca di indagarlo e interpretarlo. Missione difficile, al limite dell'impossibile, che intercetta e suscita aggressività, anche nel solo distogliere gli occhi, e speculare auto-aggressività. Le due giovani attrici, o performer che dir si voglia, dimostrano già una notevole abilità recitativa che ben sostiene una sintassi drammaturgica, dalle svariate reminiscenze che, a partire dal simposio platonico, suggeriscono suggestioni lontane, sin alla poesia erotica latina, più Catullo però che Ovidio.
Alle scuole elementari in piazza Gargamelli, per la sezione “Intersection - Intimacy and Spectacle”, cinque installazioni per altrettanti artisti in progetto promosso e sostenuto dalla Quadriennale di Praga. Abbiamo assistito in sequenza e diamo conto di tre.
MIKADO
Esempio ammirevole di drammaturgia di sola parola, del finlandese Hans Rosenstrom, organizzata in installazione sonora che ripropone ad ogni singolo spettatore un parte di un famoso dialogo da Sussurri e grida di Ingmar Bergman. La voce intensa e significante è quella di Silvio Castiglioni. Drammaturgia in un certo senso di immersione e precipitazione, con il solo ausilio di uno specchio e del suono delle parole organizza lo spazio vuoto di una stanza buia in un complesso movimento scenico che è una sorta di incursione nelle profondità del nostro conscio e del nostro inconscio, con effetto anche inquietante e comunque intensamente perturbante. Le parole sono sempre le stesse ma sembrano dette appositamente per ciascuno di noi e coscientemente differenti.
SINGSPIEL
Breve film della tedesca Ulla Von Brandenburg, appare una celebrazione del paradosso, in forma qui di paradosso urbanistico, poiché, nelle sue stesse intenzioni, vuole sviscerare il ribaltamento di una macchina urbanistica razionalmente concepita per il 'buon vivere' (Villa Savoye di Le Corbusier) in luogo di angoscia ed incertezza, di separatezza esistenziale anziché di inclusione. Mescolanza di segni e linguaggi, dal doppio angolo di visuale, uno frontale che ne esalta la cinetica razionalistisca, uno posteriore che ne svela la dimensione onirica, sovrappone con sapienza elementi visuali, interpretativi e sonori, accompagnando il nostro viaggio con musicalità intensamente regressive.
IMMERSION
Film documentario, oltre il documentario, dell'euro-statunitense Harun Farocki, in mezzora ci racconta una modalità di intervento e cura della cosiddetta sindrome post-traumatica che tanti militari, reduci dall'Irak, colpisce e continua a colpire. Modalità particolare, iper-tecnologica o se vogliamo post-freudiana, che si avvale di una installazione virtuale, una sorta di video-game che intende riportare i soldati nel centro stesso, non solo psicologico ma anche fisico, del proprio trauma. Paradossale come il linguaggio asettico, quasi una presentazione commerciale, che accompagna e anticipa il film non annulli, ma al contrario esalti, il senso di angoscia che il racconto dei singoli militari comunica quasi come uno schiaffo allo spettatore.
Interessante nel medesimo contesto, anche se non nella stessa sezione, il filmato VERONIQUE DOISNEAU del francese e coreografo Jerome Bel. Documento sulla evoluzione della danza organizzato intorno all'addio alle scene, all'Operà di Parigi, della omonima ballerina, ben rappresenta nei singoli momenti la irraggiungibile capacità di trasfigurazione della danza stessa, la sua capacità, cioè, di reinterpretare in bellezza ogni aspetto dell'esistenza umana.
Venerdi 15 luglio, nei locali del Cafè Commercio che non ha ovviamente interrotto per l'occasione la sua attività, un interessantissimo esempio di drammaturgia interattiva, o, con termine che credo più appropriato allo spettacolo e anche al festival, condivisa.
ETIQUETTE
Creazione del gruppo inglese dei Rotozaza (nome preso da uno strano meccanismo dello scultore Jean Tinguely) ideatori dell'Autoteatro, coinvolge due spettatori, seduti uno di fronte all'altro a un tavolino, e che, “diretti” da una voce in cuffia, organizzano una vera e propria drammaturgia ovvero uno studio di drammaturgia che si rifà in particolare all'Ibsen di Nora e alla filmografia di Jean Luc Godard. Intendendo essere una riflessione radicale sullo spettatore, ribaltato in scena di sorpresa, diventa, attraverso di lui, piuttosto una riflessione sull'attore, che mescola coinvolgimento psicologico e condivisione esistenziale a straniamento critico, riportando, in fondo, teatro ed arte a quello che è ed è sempre stato, non vita ma rappresentazione, imitazione e trasfigurazione dell'esistenza, delle esistenze e del loro senso, specchio dunque che non solo riflette ma direttamente produce immagini e significato di noi stessi.
Più tardi, negli spazi della sala consiliare del Municipio di Sant'Arcangelo, una assai contraddittoria drammaturgia del “Teatro Sotterraneo”.
HOMO RIDENS – SANTARCANGELO
Creazione collettiva del Teatro Sotterraneo presenta una stridente ed anche fastidiosa dissonanza tra gli intenti in qualche modo didattici, nel senso in cui era didattico il provocatorio teatro degli arrabbiati anglosassoni, e la sintassi drammaturgica che confonde anche linguaggio extra-teatrali, tra fini e mezzi in sostanza, non riuscendo fino in fondo a traslare l'evidente provocazione (il riso come reazione ad immagini e situazioni dolorose e tragiche) sul piano della consapevolezza e della trasformazione e partecipazione condivisa. Il senso complessivo rimane dunque sospeso, come un epigrafe incompiuta, e non risolve l'asprezza dicotomica delle immagine in sintesi superiore. Se peraltro l'intento era provocare disagio, questo non è mancato ma forse ne è mancato, o ne è sfuggito, lo scopo.
La sera, infine, nei più tradizionali spazi del Lavatoio, la più recente creazione della “Accademia degli Artefatti”.
ORAZI E CURIAZI
Si autodichiara 'dramma didattico' come voluto da Bertold Brecht e si organizza, a partire dalla traduzione di Emilio Castellani, attraverso la drammaturgia di Magdalena Barile. In scena gli attori della compagnia, tutti bravi sia nella gestione della mimica che in quella della voce e con predisposizione innata ad una prossemica sovrabbondante che sfora continuamente, e da ogni lato, i confini del palcoscenico. Fabula nota, ormai nel patrimonio simbolico non solo italiano, e dalla grande forza metaforica in grado di trascinare nel qui e ora della scena suggestioni e corrispondenze storiche, sociologiche, esistenziali fin alla metafisica, è gestita, nel segno di Brecht, attraverso una continua sovraesposizione di tono e di sintassi, che enfatizza lo straniamento sia dell'attore che dello spettatore e favorisce quella distanza critica che, se non ci esime dal coinvolgimento emotivo, ci consente però di diventarne consapevoli. Dramma didattico dunque perchè il suo scopo è non solo informare ma far crescere e dotare di strumenti per cambiare, nella migliore tradizione di un gruppo sempre attento a contestualizzare l'approccio drammaturgico per renderlo, come dire, produttivo e farlo promotore di un qualche mutamento.
Ovviamente attorno a questi, altri eventi, attraversano il festival e se non possiamo rendere ragione a tutti, su di uno voglio soffermarmi.
BELLO MONDO
Straordinaria prestazione, anzi dono poetico di Mariangela Gualtieri che, dall'alto di una torre antica come il passero solitario di leopardiana memoria, ci apre, ri-apre, lo sguardo sul mondo, ce lo fa vedere in senso proprio, di-spiegato di fronte a noi che la guardiamo in alto mentre la sua tunica bianca sventola alla brezza del tramonto. Le parole, intense e belle nel suono e nel senso, le ha messe lei e non ne aggiungerò altre se non che il loro suono era, finalmente, come un respiro che si apre al sollievo, a quella 'speranza' di cui sembriamo aver dimenticato il nome, e fugge da un predominante compiacimento al negativo che sembra tutti assorbire e tutti assorbirci.
Vorrei dedicare la terza giornata di questo mio viaggio all'interno del Festival di Sant'Arcangelo di Romagna ad un dono, un dono speciale e straordinario. È quello che ha fatto Marco Martinelli, all'interno della bellissima ed inaspettata sezione detta dei “Cori”, con il suo laboratorio a cielo aperto. Un dono straordinario dicevo, che straordinariamente non prevede 'contraccambio', perchè appare ed è di tutti a tutti, di Marco al Festival, del Festival a Marco, dei suoi ragazzi a noi e a sé stessi, ed infine di noi a loro e soprattutto a noi stessi.
ERESIA DELLA FELICITA'
E' questo il titolo scelto da Martinelli per una “creazione a cielo aperto per Vladimir Majakoskij”, tutti i giorni del festival allo sferisterio di Sant'Arcangelo. La 'non-scuola' delle Albe produce dunque, e Marco tiene a precisarlo accogliendo i numerosi non-spettatori “testimoni”, un non-spettacolo che è viaggio continuo, andata e ritorno, cerchio che mai si chiude in sé stesso, che è una peripezia all'insegna dell'inclusione di tutti e di ciascuno. Duecento bambini, ragazzi e adolescenti provenienti da tutti i luoghi in cui il Teatro delle Albe ha messo almeno una radice (in Europa, Africa ed Americhe) e dai quei luoghi di Italia, comunemente creduti aridi, in cui il seme ha fruttificato più a lungo, come Scampia, Mazara del Vallo e Lamezia Terme percorrono quel sentiero, al seguito della voce di Marco, e ci trascinano ineluttabilmente con loro. Evento dalla fortissima carica emotiva che traveste i versi, spesso dimenticati, del grande Russo, versi così carichi di affettività ed a volte tragica speranza, li traveste dei sentimenti dei suoi ragazzi che su quelle ali spiccano voli inattesi. Marco rileva qui, in maniera direi eclatante, quella sua innata empatia che risveglia, come un abile maieuta, affetti e sentimenti celati tra le righe di un testo, poetico e drammaturgico, come celati li abbandoniamo tra le righe di una vita che si fa arida e piena di oblio. Li risveglia e suscita ma non se ne appropria, ce ne lascia gustare il sapore,ce ne lascia apprezzare il profumo e ce li dona una seconda volta. Sembra, Marco, aver scoperto, e così farci scoprire, che l'inclusione dell'altro, sconosciuto o diverso che sia, non salva tanto gli esclusi, quanto e soprattutto noi.
Perchè, citando i versi di Baldini, incastonati nelle trascrizioni sceniche delle più belle poesie di Majakoskij, “se si accendono le stelle è perchè qualcuno ne ha bisogno”.
Salutati i duecento ragazzi di Martinelli e Majakoskij, un altro evento segna questo sabato assai particolare del Festival.
L'CCELLO DI FUOCO
Fiaba russa dalle infinite suggestioni musicali e oniriche, è rivisitata da Chiara Guidi in questa nuova prova della “Societas Raffaello Sanzio”. Accompagnata dalle variazioni sonore elettroniche di Massimo Simonini e dal violino di Silvia Tarozzi, Chiara Guidi spinge progressivamente sulla trasfigurazione in suono delle parole, liberandone ed insieme liberandole dai legami di un significato ormai stretto come una prigione, ed enfatizzandone il potere magico di translitterazione, di continua trasformazione e di libertà continuamente rinnovata e rinnovabile. Metafora della salvezza che all'umano deriva dalla libertà, difesa o riconquistata, che sconfigge il mago della rigida ipocrisia che ci rende di pietra, la fiaba si appoggia sulle voci ancora intatte dei bambini che Chiara Guidi conduce per quell'aspro andare. L'uccello di fuoco, liberato dalle sue catene, è dunque grato al giovane principe, così come la libertà delle nostre menti, dei nostri spiriti e dei nostri corpi è fonte continua di gratitudine.
Altro esempio di inclusione, che sembra la cifra di questa direzione artististica, il coro gregoriano curato da Elena Sartori con un gruppo di Sant'Arcangelo, il “Coro Magnificat”, che ha accompagnato stamane la funzione domenicale, dopo essersi già esibito il 9 e il 10 luglio. Segno che questo festival mostra di essere penetrato in profondità nelle vene della città.
Infine, ma non ultime, si sono svolte sempre questa mattina della domenica 17 le consegne dei premi “Lo straniero”, a cura della omonima rivista di Goffredo Fofi, attenta, e i premiati ne sono testimonianza evidente, a tutti quegli aspetti, 'eretici' vengono definiti, dell'arte, della cultura, della scienza e della Società che tengono gli occhi aperti, e aiutano noi a non chiuderli, sulle dicotomie del vivere contemporaneo e preservano esperienze che, se non immediatamente produttive, potranno esserci presto molto utili per contrastare ed invertire la parabola involutiva che sembra ormai inevitabilmente segnare il futuro dell'Italia e della nostra convivenza.
Si chiude in una calda domenica di luglio Santarcangelo dei teatri, con una rumorosa e felice festa senegalese che coinvolge tutti i ragazzi di Marco Martinelli ed, intera, la città, e si chiude il mio girovagare per il festival con una drammaturgia che ha le tonalità del teatro più tradizionale, ma insieme i temi delle relazioni di esclusione-inclusione, del rapporto in fondo tra individuo ed il suo esserci in luoghi e rapporti concreti, che a mio parere ha caratterizzato questa edizione a cura di Ermanna Montanari.
L'ORIGINE DEL MONDO I, II, III PARTE
Drammaturgia, come detto, dalla sintassi più tradizionale indaga, nelle forme più tipiche del teatro novecentesco fino agli “arrabbiati” ed oltre, la grammatica della solitudine, nelle sue articolazioni per così dire estreme, cui il palcoscenico offre da tempo proteiformi espressioni. Drammaturgia inoltre, per sintassi ed anche per eplicite intenzioni, in farsi, sembra cercare proprio sulla scena una definizione, una struttura che ne sintetizzi e limiti un quasi incontenibile autoriprodursi, una ansia fagocitatoria che a partire dal singolo personaggio di esordio, una madre depressa davanti a un frigorifero, che metaforizza, più che soggettivamente rappresentare, una condizione umana e anche psicoanalitica la cui rappresentazione sociale apre ad elaborazioni quasi metafisiche, tende a man mano inglobare nuovi personaggi, situazioni, dialoghi. È una sorta di pulsione ripetuta a cercare parole e situazioni che ne spieghino, giustifichino ed infine legittimino il proprio insuperabile isolamento. Una contraddizione in termini, dunque, la madre rifugiata nella propria solitudine incomunicante ma verbosamente esigente (mi ascolti? Ripete continuamente) man mano coinvolge e immobilizza i personaggi che un po' alla volta emergono da una fitta e ben strutturata trama testuale e scenica. A partire dalla figlia, imprigionata dal non senso di un rapporto ad unica direzione, e poi, via via, la madre, il marito in una espansione a cerchi concentrici verso l'esterno (i luoghi della città, le relazioni sociali, l'incerto intercettare sconosciuti) di cui la stessa drammaturga non vede, o non vuole, individuare una fine.
Ciò costituisce in fondo anche un limite soprattutto della scrittura scenica che perde progressivamente i suo confini, dilatandosi un po' su sé stessa ed in un certo senso immobilizzandosi come un motore che gira a vuoto e rischia di ingolfarsi. Probabilmente solo la conclusione del lavoro della drammaturgo, se mai vedrà la luce e la stessa drammaturga dubita, potrà dare all'insieme del movimento scenico quell'equilibrio che in parte sembra, e quasi per decisione volontaria, ancora mancare.
Scritto da Lucia Calamaro per la sua compagnia Malebolge, segnala in particolare in scena Daria Deflorian e Federica Santoro, una madre ed una figlia molto brave sia nella gestione della mimica che dei movimenti corporei e nella prossemica scenica, attrici mature e di notevole sapienza attoriale.
Lo spettacolo, nelle oltre tre ore di durata, ha saputo intercettare l'attenzione e l'interesse del pubblico al teatro Petrella di Longiano, meritandosi caldi applausi.
Ed ora, arrivederci a quello che sarà la prossima edizione.