Caro Diario,
sono partito per Istanbul, in buona compagnia con gli autori che presenteranno lì i loro lavori: Sonia Antinori con Il castello di fango, Renata Ciaravino con Opera Notte, Letizia Russo con Deadend - Binario Morto, Vittorio Franceschi con Scacco pazzo.
La spedizione è una delle conseguenze delle iniziative del Centro Santa Chiara che dal 2006, sotto l'impulso della effervescente Mimma Gallina, ha organizzato un ponte con Istanbul. All'iniziativa del Centro si sono successivamente legati il festival di Asti e la Compagnia Arca Azzurra, che presenterà La Maledizione del cervo di Murathan Mungan riduzione di Massimo Salvianti e regia di Riccardo Sottili.
Caro Diario, sono di fretta e un po' nervoso ma tornerò a scrivere per te presto. Intanto ti passo questa lettera che Vittorio Franceschi ha inviato al festival di Istanbul:
"E’ difficile riassumere in poche righe le mie impressioni sulla drammaturgia italiana contemporanea. Le esperienze che in questi ultimi anni si sono imposte all’attenzione della critica e del pubblico sono prevalentemente di matrice dialettale e regionale e vengono quasi tutte dal sud, Napoli e Sicilia in particolare ma non solo. Se è vero che nelle lingue natìe - i dialetti - gli italiani riescono ad esprimersi con maggior fantasia e verità - anche perché, così, possono comunicare con più forza e partecipazione il disagio che è alla base del vivere quotidiano nella loro terra- è anche vero che un Paese moderno deve trovare una lingua unificante per raccontarsi e per rivolgersi, pensando al futuro, a un pubblico che sarà sempre più “nazionale” e sempre meno “regionale” essendo in atto un cambiamento epocale al quale contribuiscono in modo massiccio i migranti provenienti da tanti Paesi diversi.
A questo fenomeno si aggiunga il flusso sempre più allargato di “migranti interni” che trova sbocco soprattutto nei centri universitari, ormai numerosissimi e disseminati su tutto il territorio nazionale. Mai come in questi anni, credo, i giovani delle varie parti d’Italia si sono incontrati, mescolati e conosciuti. Faccio un piccolo esempio: alla Scuola di Teatro “Galante Garrone” di Bologna, dove insegno e di cui sono condirettore (un centinaio di allievi, tra Corso propedeutico, 1° e 2° anno del Corso di Recitazione e Corso di Nouveau-Cirque) il numero degli allievi nati in quella città non supera il 10%. Il restante 90% è costituito da giovani proveniente da altre regioni, moltissimi dal sud. Io penso che i dialetti, attraverso un processo ahimè doloroso, che sarà lunghissimo e quasi impercettibile ma inevitabile, siano destinati a scomparire.
E penso che lo sforzo che dovrebbero fare tutti gli autori di teatro italiani sia quello di coltivare la nostra lingua nazionale e di esprimersi con quella, come avviene da sempre nei Paesi europei di maggior tradizione teatrale, dove l’idea di nazione è certamente più sentita e anche difesa con orgoglio. Anche questo - riconoscersi nella propria lingua e coltivarla - è un modo per battersi a favore di un’identità nazionale e contro le differenze e le divisioni. Beninteso non si tratta di mettere in discussione il valore immenso che le “lingue locali” hanno avuto e continuano ad avere, soprattutto nelle zone dove il dialetto è ancora la lingua parlata (l’Italia, ancora oggi, è conosciuta e ammirata all’estero per la lezione della “Commedia dell’Arte”, non certo per il suo teatro “in lingua”).
Si tratta di prendere atto che la storia va avanti e che anche l’Italia sta cambiando. E che proprio in questa fase storica, mentre emergono con prepotenza spinte e rivendicazioni localistiche, è fondamentale ribadire la priorità dell’ italiano nella cultura e nel teatro. Non condivido, tra l’altro, il parere di chi afferma che la nostra lingua è poco adatta per il teatro. E’ uno strumento espressivo e come tutti gli strumenti bisogna semplicemente saperlo usare. Io ci sto provando e invito tutti i giovani autori italiani a fare altrettanto, a crederci e da bravi artigiani, con amore e pazienza, a far pratica. E’ una bellissima sfida. E vorrei invitarli anche a trattare nei loro testi temi universali, di grande significato sociale ed etico.
Qualcosa si è mosso ultimamente. Bisogna continuare e forse già molti lo stanno facendo. Me lo auguro. Infatti, non è scrivendo testi col linguaggio “di tutti i giorni” o “come si parla al bar” o raccontando storie che si svolgono nel tinello di casa che si racconta una verità, per questo ci sono le “fiction”. Sia chiaro, la commedia leggera e di intrattenimento è sempre esistita e continuerà legittimamente ad esistere. Ma io mi rivolgo agli artisti, a quegli autori di teatro che intendono essere messaggeri di poesia e di valori alti. E già che ci sono vorrei invitare i registi, soprattutto quelli dell’ultima generazione, a limitare l’uso di effetti sonori sparati a tutto volume e di proiezioni: suoni e immagini che il più delle volte coprono un sostanziale vuoto d’idee e una palese incapacità di guidare gli attori.
Il lavoro dell’attore - e sull’attore - deve restare protagonista, essendo l’attore l’unica figura indispensabile del teatro. Siamo noi attori i messaggeri del poeta. Il teatro si può fare senza scene, senza costumi, senza regista e anche senza testo - si può fare una pantomima, magari al lume di candela - ma non si può fare senza attori. E io, che resto in primo luogo un attore (un attore che scrive) rivendico la centralità del mio lavoro. La tecnologia fa ormai parte della nostra vita ed è giusto usarla, ma solo se è complemento necessario di un linguaggio espressivo e non arma letale di un’effettistica alla moda e del tutto gratuita, usata "pour épater les bourgeois"."
Vittorio Franceschi