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La tragedia contemporanea
Pirandello, Pasolini, Testori
di Tiberia De Matteis
Ponte Sisto Editore - Roma 2006
pagg. 239 € 12,00

Non manca certo alla giovane autrice di questo saggio il coraggio dell’esploratrice, a parte la sapienza argomentativa e di concatenazione. Alla sua seconda prova dopo quell’ “Autori in scena” in cui ha saputo regalarci uno sguardo a tutto tondo sulla drammaturgia contemporanea emergente, affronta stavolta con piglio intraprendente e creativo l’universo tragico nazionale, con tre affondi magistrali: Pirandello, Pasolini e Testori. Ciò avviene in un modo dotto e curioso insieme, che dà da riflettere e ispira simpatia: il primo esame parte dall’inizio della produzione teatrale dei soggetti in gioco, inseguendo come in una fiaba tutti i segni manifesti dell’esistenza di una vocazione, di lì attraverso l’opera nel tempo, fino ad una teorizzazzione complessa e argomentata, che spiazza il lettore, coinvolto prima dal piano discorsivo e travolto poi da quello riflessivo. E’ uno stile? E’ un’abilità? Vediamo. Per cominciare Tiberia De Matteis sfronda anzitutto qualsiasi dubbio sulla vocazione teatrale di Pirandello, ritenuta tardiva, rammentando che aveva dodici anni quando scrisse la tragedia in cinque atti Barbaro, ispiratagli dall’Eufemio da Messina di Silvio Pellico e con la stessa semplicità, poche pagine dopo, puntualizza che su di lui pesa la cultura post-idealistica di indirizzo hegeliano che “lo porta a riconoscere il tragico soltanto nelle condizioni del teatro cittadino dell’antica Grecia e del dramma elisabettiano”. Cio è a dire nelle condizioni in cui l’essere umano è connesso con la sua volontà e con il mondo che lo circonda: mentre l’uomo moderno ha perso la sua autonomia e con quella la possibilità di riferirsi ai suoi valori assoluti, che gli conferirebbero la distanza necessaria a contemplare serenamente i suoi errori. Di qui la presenza nella scrittura di Pirandello, del “ridicolo”, una passione per l’uomo che gli impedisce di vederne il fallimento (con il corollario che qui la relazione –soprattutto parentale- sostituisce l’azione), più che di un comico con il suo potere destrutturante. La frequente scelta dell’atto unico si configura invece come la volontà di “salvaguardare il tragico, concentrandolo nella dimensione estrema che precede la catastrofe”. L’idea di fondo sembra essere che nel teatro pirandelliano si insegua comunque la visione tragica per riformularla, in rapporto ai tempi (vedi le pagine su La nuova colonia). Interessanti le letture scelte da Pirandello, qui indicate, giacchè sono , sì, quelle canoniche, ma con focalizzazioni in passaggi meno esplorati, che si rivelano illuminanti. Ancora da notare l’accento sul conflitto matriarcato/patriarcato, in chiave bachofeniana, che ci tocca storicamente con grande puntualità. Creati i presupposti d’indagine attraverso Pirandello, è più semplice il ricorso a Pasolini e Testori. Scopriamo come anche Pasolini, sedicenne, subisca l’impronta di Silvio Pellico, (in questo caso però è il romanzo “Le mie prigioni” a funzionare da catalizzatore e la cosa in sé basterebbe a suggerire non pochi interrogativi o sulle qualità di Pellico o su quelle della scuola italiana nel tempo) in un dramma giovanile da poco rinvenuto, dal titolo “La sua gloria”, di ispirazione risorgimentale e curiosamente con un protagonista che porta il nome del fratello Guido, “inaugurando così un sistema di scambi e di spostamenti di identità tipico della sublimazione artistica degli eventi biografici agognata dall’autore friulano”. I temi dell’innocenza e della colpevolezza e le variazioni sul mito in connessione con la tragedia cristiana sono attraversati lucidamente nell’esame delle opere, facendo riferimento alla produzione di Pasolini anche cinematografica o variamente letteraria: è solo leggendo il testo che ci si accorge come possieda il merito strutturale di suggerire, già in indice, una memorizzazione del percorso intrapreso dalla studiosa, indicando la traccia puntuale dei risultati di ricerca. Giunti a Testori dopo questo excursus, sembra anche facile individuare i punti di contatto con Pirandello prima e Pasolini poi, in quella che che sembra una “poetica di regressione verso l’autenticità primordiale”. Se la prima ispirazione è il tentativo di riscoprire in chiave popolare i fondi tragici dell’esistenza, la conclusione ben presto è che ”La carne fatica troppo a ridiventare parola” : perciò il passaggio al rito collettivo, alla trasformazione della carne in linguaggio (giacché è la carne a partorire sempre nuove domande), all’annullamento del deuteragonista per consentire al narratore officiante una effettiva opera di “consustanziazione” verso il grembo sacro del teatro. Qui il tragico si fa effettivamente “una partita che viene giocata senza nessuna speranza di vincere, ma con la consapevolezza del valore sacrale dell’impegno profuso”, troppo pirandellianamente impigliati nella vita per raggiungere la serenità che consenta di concepire il dramma ma in puntuale (1968) sintonia con Pasolini nel recupero della centralità della parola in teatro. Arrivando, indica acutamente l’autrice in un geniale colpo di coda, all’invenzione di un linguaggio che violenta struttura e parole in direzione del grammelot, in un pastiche in cui il significante incarna il significato e si configura come l’invenzione stilistica per restituire teatralmente “l’avventura metateatrale di interpreti emarginati, disposti a confrontarsi con le figure emblematiche della tragedia letteraria”.
DANIELA PANDOLFI