Pin It

La lettura è nel tempo, la scrittura è nel tempo. Ma il tempo è materia complessa, e per poterla maneggiare ci siamo inventati, ormai secoli or sono, che il tempo è lineare, ovverosia che si sviluppa per segmenti successivi. Alla stessa maniera tradizioni di scrittura antiche e moderne hanno inventato la struttura, che alla fin fine non è altro che uno strumento il quale, nel dividere il testo in segmenti

e nel dare delle regole per svilupparli, riesce a ridurre il nostro campo d’indagine e a spingerci a fare delle domande non generiche a noi stessi – rendendoci quindi la vita più facile.
Che esista poi una sola struttura per le opere drammatiche, come sembrano professare certuni, è un altro discorso, che non ha nulla a che vedere con l’utilità della struttura come strumento di lavoro. Non esiste una sola struttura, ma infinite. Credere nelle regole dello sreenwriting non deve impedirci di abbandonare una struttura semplice per una più complessa – e d’altra parte non crederci non ci deve impedire di riconoscere l’utilità dell’organizzazione di una storia mediante la struttura. Ricordiamo prima di tutto questo: non esiste un solo testo che, analizzato, non riveli di seguire una struttura. Ma il punto è: qual è la struttura da usare stavolta? E fino a che punto la devio seguire?
Non esiste una sola struttura, ma infinite. Tuttavia esiste una struttura prototipo, generatrice di tutte le altre, che in effetti è l’arcinota struttura tripartita, in tre atti, aristotelica o come vogliamo chiamarla. Personalmente preferisco la descrizione che di inizio, svolgimento e fine ci viene da Zeami e dal teatro Nō, piuttosto che le regole della sceneggiatura americana, la quale, più che ascoltare Aristotele, segue le tracce della pièce bien fait, che non era solo un arsenale di regole formali, ma anche di precetti morali, ad oggi davvero superati.
Zeami afferma che una giornata di Nō riuscita è strutturata in un Jo – Ha – Kyu, e che ogni parte ha il suo Jo – Ha – Kyu e così via, potenzialmente all’infinito.
Jo – Ha – Kyu: trattenere, rompere, rapidità (nella traduzione di Eugenio Barba).
Ma facciamo un passo indietro, e torniamo alla struttura come strumento complessivamente preso. Tener conto di una struttura nello scrivere ci ricorda innanzitutto che per arrivare a Mosca il treno fa tante tappe intermedie, e che prima di decollare l’aereo deve essere messo in moto, fare un tratto di pista, staccarsi da terra, ritirare i carrelli. In altre parole quando scriviamo è utile darsi mete vicine da raggiungere, e da quelle passare alle più lontane. Questo potremmo farlo, è vero, anche senza sapere in anticipo con che struttura stiamo giocando, ma se oltre alle mete intermedie teniamo conto di una meta lontana (e non mi riferisco alla fine della storia, ma a qualcosa che è ancora oltre), ecco che stiamo già lavorando con la struttura.
Naturalmente non è necessario chiarire una struttura prima di iniziare a scrivere (anche se come esercizio è utile senza dubbio), perché la struttura che ha fatto partorire un capolavoro a qualcuno può concludersi in un aborto per altri, quello che dobbiamo fare è tenere sempre aperto un canale fra il nostro immaginario e la struttura, fra quanto già riusciamo a vedere nella nostra mente (e probabilmente sarà qualcosa di caotico) e il modo in cui le parti potrebbero connettersi, in maniera tale che l’immaginario e la struttura possano nutrirsi a vicenda. In maniera tale che il flusso caotico della vita possa trovare espressione grazie alle proprietà della forma.
Ciò che conta è aver sempre presente che una battuta, una situazione, una scena, una sequenza non hanno mai valore in sé, bensì prendono senso in relazione a ciò che le segue o le precede. E che ogni segmento successivo deve spingere da qualche parte (ma non necessariamente avanti) la scrittura. Se volete, potete immaginare la struttura come una rete, fatta di esili strutture e ampi spazi vuoti: sta a noi la scelta di quali colmare. Come a noi sta la scelta di quanto spazio dare, nella nostra struttura, a ogni parte. Torniamo quindi a Zeami, che, nel ricordarci che tutto segue il principio del Jo – Ha –Kyu, non evita di dire che questo principio è una gabbia per la realtà, e che siamo noi drammaturghi a decidere quanto spazio dare a ciascuna delle parti.
Padroneggiando la semplice struttura prototipo nei suoi elementi costitutivi potremo quindi comporre una storia in due parti, per esempio, priva di risoluzione, ma sapendo che per non dare l’impressione che il testo non sia finito dovremo comunque contemplare un brevissimo Kyu (a meno che la fine della seconda parte non sia così forte da rendere inutile un’appendice). Potremo comporre qualcosa in cui ogni cambio scena corrisponda all’inizio di una nuova storia, riproposto in maniera diversa per un certo numero di volte, ma per non rendere tutto monotono e dare un respiro al nostro testo faremo in modo che le prime storie abbiano caratteristiche diverse da quelle centrali e da quelle finali. Si tratta sempre di una questione di ritmo, di respiro, di composizione, e non di regole rispetto ai contenuti.
L’insegnamento maggiore che ci da il Jo – Ha – Kyu è perciò quello di far agire il testo, trattenendolo per un bel pezzo, per conoscerlo meglio ed entrarci dentro, per poi rompere gli indugi e affrontare l’argomento che davvero ci interessa, finchè non avremo raggiunto il punto in cui sarà bene concludere il più rapidamente possibile, lasciando in chi guarda la doppia sensazione di aver raggiunto, da un lato qualcosa che all’inizio non poteva neanche immaginare, e dall’altro di aver voglia che lo spettacolo prosegua, cosa che, naturalmente, non accadrà, né deve accadere. (Tra gli altri strumenti Zeami suggeriva, a questo proposito, di usare un linguaggio semplice e di presa immediata nel Jo, di essere raffinati e complessi nello Ha, di riempire di rapida azione il Kyu. Se poi ricordiamo che prima di passare a una nuova fase sarà sempre bene allontanarcene il più possibile per potenziarne l’impatto avremo un insieme di consigli molto simile a quello della sceneggiatura all’americana, ma con una apertura nettamente diversa).
Ciò che importa è non essere rigidi nell’applicazione di un principio, di un concetto, di un idea. Padroneggiare la struttura non significa infatti soltanto saper inserire un climax a 2/3 dall’inizio per poi passare a una distensione con cui iniziare lo svolgimento, ma soprattutto significa avere la consapevolezza del ritmo proprio dello specifico progetto che stiamo affrontando. Sapere che la struttura è necessaria non significa sottostare supinamente a essa, ma piuttosto avere davvero la possibilità di scegliere, perché scegliere è un compito a cui il drammaturgo non deve mai sottrarsi. Iniziare dalla fine di un testo, o da una scena che ci appare vivida non è un delitto, anche se solitamente ci viene insegnato che per scrivere si deve buttar giù un soggetto, una scaletta, e passare da quella a un trattamento o una prima stesura. Iniziare da uno scambio di battute può essere la maniera migliore di togliere alla pagina il bianco che ancora nasconde le nostre parole. Iniziare da qualcosa che non vedremo mai in scena può funzionare alla perfezione se sapremo che esiste un lavoro parallelo, da fare sulla pagina o nel pensiero, a parole o a grafici o disegni, che è l’organizzazione di una struttura, la scoperta e la chiarificazione di quelle regole che essa stessa ci suggerirà.
Non disdegniamo quindi, ma neppure idolatriamo, l’insegnamento delle vecchie e nuove tradizioni di scrittura, che dicono: dividete la vostra storia in tre parti, nella prima non diteci tutto, ma inserite gli elementi che in seguito utilizzerete, nella seconda lasciate che il conflitto esploda fino a un punto di non ritorno mostrandoci caratteristiche impensate di chi credevamo di conoscere, nella terza concludete il più rapidamente possibile (ma senza risolvere tutto, mi sento personalmente di consigliare). Iniziare da qui può essere utile, per arrivare progressivamente a rompere la struttura prototipo in maniera imprevista.
E trovate sempre un momento per raccontare a qualcun altro cosa state scrivendo, è una sorpresa continua vedere quanto è diverso il racconto che fai a qualcuno, da quanto stai effettivamente scrivendo, perché nella mente una storia segue il tempo multidimensionale, ma quando la si racconta è del tempo lineare che abbiamo bisogno.