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Due storie. Quattro personaggi. Sul palcoscenico del Teatro Elfo-Puccini di Milano prendono vita i testi di due autori inglesi, Caryl Churchill e Mark Ravenhill, che trovano nella storia americana e nella sua tradizione capitalistica una realtà con cui confrontarsi. Carlo Cecchi, regista e interprete di entrambi gli spettacoli, si misura con dei testi intensi e, rappresentandoli uno di seguito all'altro, mette a dura prova la resistenza dello spettatore. Un divano bianco, un frigorifero pieno di coca-cola e un televisore pèoggiato sul pavimento mostrano, senza essere nascosti dal sipario, il luogo in cui Caryl Churchill ha ambientato il suo Abbastanza sbronzo da dire ti amo?, lasciando così allo spettatore in attesa il tempo per fare le più strane congetture su un ipotetico uso dei vari oggetti di scena e su come si inseriranno nella vicenda. La storia è presto detta: l'autrice inglese attraverso il dialogo tra due uomini, dichiaratamente omosessuali, identificando l'uno con gli Stati Uniti e l'altro con l'Europa, dipinge con abili pennellate l'immenso affresco di rapporti che nel corso dei secoli sono stati intreccati da queste due potenze mondiali. Risulta evidente un confronto sempre squilibrato, un rapporto che non trova mai la giusta via di mezzo tra quello che vuole Guy-Europa (Carlo Cecchi) e quello che pretende Sam-America (Tommaso Ragno), quest'ultimo sempre vincitore. Le battute si susseguono in un dialogo confuso fatto di frasi spezzate che cadono nel vuoto, di battute urlate per imporre il proprio volere e di parole che determinano la rottura della comunicazione, quasi si stesse assistendo a un timido Beckett. Come nelle più comuni storie d'amore anche qui la passione iniziale cede il posto all'accondiscendenza e tra i due amanti/Paesi affiorano disaccordi e impacciate  ribellioni. La rottura non tarda a manifestarsi e sembra segnare definitivamente la fine di ogni rapporto. Ma a rendere il tutto un pò più patetico ecco che sopraggiunge il ritorno a testa bassa dell'Europa che senza una briciola di dignità si sottomette bisognosa delle attenzioni del colosso americano. Carico di buone intenzioni il testo di Caryl Churchill ha in sè una forza critica capace di portare lo spettatore a riflettere su una storia che riguarda tutti noi; purtroppo l'esito scenico non restituisce nel migliore dei modi lo sguardo storicamente critico dell'autrice inglese, facendo perdere l'energia delle sue parole negli sbadigli degli spettatori. L'interpretazione dei due attori senza particolari modulazioni o variazioni della voce, risultando infelicemente piatta, costringe lo spettatore a preoccuparsi per il computer con cui interagiscono i personaggi, sempre in bilico sul bel divano bianco in scena, piuttosto che per i complicati temi affrontati. Quando cala il sipario che segna la fine del primo spettacolo per la sala risuonano sospiri di sollievo per ciò che è già passato e sospiri angosciati per lo spettacolo che deve ancora cominciare: Prodotto di Mark Ravenhill. Sempre due sono i personaggi in scena, ma questa volta è il monologo a dominare. Sul palcoscenico non ci sono più il divano e la televisione ma una scrivania e due sedie sempre con il frigorifero sullo sfondo. Siamo nello studio di un regista (Carlo Cecchi) che cerca di convincere una star di Hollywood (Barbara Ronchi), seduta  in scena ma in costante silenzio, ad accettare la parte della protagonista del suo nuovo film. Lo spettacolo altro non è che l'articolato ed enfatizzato racconto della trama del film stesso. Lo spettatore viene così catapultato all'interno del mondo cinematografico e reso consapevole della mediocrità di cui si nutre l'industria cinematografica americana (come se non lo sapessimo), copioni visti e rivisti troppe volte. Il regista infatti comincia a raccontare battuta per battuta una storia melodrammatica e paradossale al tempo stesso con storie d'amore che comportano scelte dolorose e avventure patriottiche al limite della sopportazione: un amore impossibile quello tra la protagonista, Amy, e un islamico, Mohammed, venuto per compiere un attentato in nome della Jihad. Apparentemente semplice la trama è complicata dalla comparsa di personaggi o vicende al limite dell'assurdo, come il ricercatissimo Osama Bin Laden, che permette ad Amy di partecipare allo sterminio di massa a Disneyland Paris per morire insieme al suo amato, o l'altrettanta assurda morte finale dei due protagonisti. La sopportazione dello spettatore è messa a dura prova non solo per la lunghezza di questa seconda rappresentazione, tollerabile per la prima mezzora, ma anche per l'inevitabile finale del film che nel racconto viene più volte accennato, alimentando le speranze del pubblico, per poi essere disatteso e rinviato dopo altri colpi di scena. A peggiorare la situazione quel sapore di telenovela spagnola di cui sono intrisi i dialoghi del copione con battute senza nessuna profondità e vicine alla derisione. All'interno di questo quadro apocalittico, l'attore Cecchi non sbalordisce, ma neanche provoca ribrezzo: incespicando qua e là, riesce però a restituire un personaggio complesso, tormentato dal desiderio di vedere realizzato il suo film e dall'angoscia di non avere i finanziamenti necessari. Forse per intenzione dell'autore, forse no, il risultato è comunque un pubblico esapserato e risentito.

Foto di Luca Gavioli