Detta così sembra che gli Italiani si siano arresi. In realtà la distruzione operata dalla politica finanziaria dei tagli alla cultura pare irreversibile. Ma nessuno si arrende. E mentre la cultura italiana muore, i teatri chiudono, i musei licenziano e sprangano le porte, i centri di cinematografia e accademie varie piangono i bei tempi
a Napoli e in molte altre città italiane si scende in campoLe manifestazioni di rivolta e di rabbia pacifica nei confronti della decisione del Governo di tagliare i fondi a ben 232 istituzioni culturali, si muovono come un unico lungo corteo in tutta la Penisola. La cultura non è una questione di elite sociale e lo dimostra il fatto che in piazza scendono gli attori, i registi, ma anche le maestranze, i tecnici teatrali, i giovani lavoratori di musei e accademie. Scendono in piazza personaggi famosi e gente comune, laureati e non, teatranti e spettatori, sulla stessa linea. L’attacco alla cultura parte dalla Scuola e arriva allo spettacolo, derubando la nostra bella Italia del primato culturale che ha sempre avuto, decurtando gli Italiani di una coscienza culturale che li dovrebbe rendere liberi di pensare e di decidere. Il 29 ottobre 2010 Napoli si mobilita: una città in cui si vive di teatro urla il suo dolore. A capitanare l’iniziativa il giovane attore Pietro Pignatelli, seguito dalla grande forza di Carlo Cerciello, che da settimane smuove gli animi, anche dei più giovani, utilizzando finalmente in maniera intelligente un network come Facebook. Ma troviamo anche Lello Serao, Manlio Santanelli, le maestranze della rassegna Museum. Forse grandi assenti, almeno nessuno le ha viste, le istituzioni universitarie. Una sorta di richiamo alle “armi” che vede per le vie di Napoli attori con i visi dipinti di bianco e i vestiti a lutto, scheletri e bara di rito, per il funerale più amaro di questa nostra Italia alla distruzione. E se gli attori della rassegna Museum nei giorni passati piangevano come bambini dopo i loro spettacoli, spiegando alla gente che forse l’anno prossimo tutto questo non ci sarà più, il 29 settembre Isa Danieli, elegante e fiera, sfila dietro la bara lungo tutto il corteo, per poi sedersi a terra mescolata alla moltitudine di giovani al centro della suggestiva Galleria Umberto di Napoli. Nessun rumore, nessuno schiamazzo, ma la voce di Pignatelli che recita il suo dolore ricevendo applausi amari. Presenti diversi giornalisti e critici, i quali, se le stagioni teatrali italiane andassero in completo sfacelo, forse continuerebbero a scrivere, ma senza lo stesso ardore. E mentre Niko Mucci suona a morto il suo tamburo, si avvicinano e si uniscono al lugubre corteo i lavoratori del Museo Madre di Napoli, che vedono nel loro più vicino futuro solo il licenziamento. È vero, come afferma uno di loro, questa categoria di lavoratori non produce bottoni o generi di prima necessità, ma ci si chiede cosa sarebbe il nostro Paese senza istituzioni culturali, annullando una tradizione che ci ha sempre distinti. La cultura è composta da diversi livelli sociali e lavorativi che vanno, in un solo soffio, distrutti tutti contemporaneamente. Il funerale napoletano viene caratterizzato da un’apoliticità fortemente voluta, perché qui si parla di progresso culturale, o meglio regresso, e di apertura mentale che viene negata. Senza questi elementi si aprono le porte ad un unico scenario: omologazione delle masse. Anche alcuni rappresentanti di compagnie amatoriali si aggiungono al corte e nonostante qualche facinoroso prenda in giro i teatranti illusi e istighi alla violenza, i dimostranti affermano di essere aperti a qualsiasi soluzione, purché si continui a far sognare la gente e ovviamente a lavorare. La crisi della cultura italiana è di certo uno dei molteplici aspetti di un problema sociale e politico molto più vasto. Ma togliere agli Italiani non solo il lavoro, ma anche cultura e spettacolo, significa svegliare il cane che dorme.