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In chiusura di stagione, e proprio in contemporanea con l'avvio della XVII Rassegna di Drammaturgia Contemporanea, le mises en espace che vedono protagonisti gli allievi della sua scuola di recitazione, il Teatro Stabile di Genova sceglie di ospitare, in prima nazionale dal 15 al 20 maggio al teatro Duse, questo lavoro prodotto dalla Compagnia DeiDemoni che da ex allievi di quella stessa scuola è costituita. Si tratta appunto de “Il Motore ad Acqua”, dell'americano David Mamet datato 1974 e ambientato nei cupi anni 30 della grande depressione (scelta casuale?), tradotto da Anna Maria Biavasco per un progetto di Marco Parrinello, che è anche il regista, e di Patrizia Farina. In scena Marco Avogadro, Jacopo Maria Bicocchi, Arianna Comes, Orietta Notari, lo stesso Mauro Parinello e Fausto Sciarappa, tutti bravi e già maturi da poter affrontare, ciascuno e con buon esito, una continua giravolta di personaggi diversi. Scene e costumi sono di Chiara Piccardo, le musiche originali di Stefano Cabrera e la scenografia luminosa di Liliana Iadeluca. Dramma di cattiveria e fallimenti, non tanto esistenziali quanto sociologici e storico-politici, critico di un meccanismo che stritola ed appiattisce l'individuo sotto il tallone del profitto ad ogni costo, che le crisi enfatizzano ma che, sottolinea con poche speranze Mamet, si ripete con costanza abbattendo anche i simulacri di una libertà o liberazione sempre attesa. Cadono così tra le righe di questa drammaturgia aspra anche alcuni degli eroi del sogno americano, a partire dal grottesco giornalista di cronaca giudiziaria. Un giovane inventore e sua sorella si illudono di cambiare vita e futuro grazie all'ideazione di un motore che funziona ad acqua, ma le loro vite sono spazzate vie dalle esigenze dei grandi aggregati capitalistici che avebbero tutto da perdere da una invenzione a disposizione di tutti. Sono spazzate via per finire dimenticate in poche righe di cronaca nera. Dramma aspro e anche 'cattivo', di quella cattiveria che spinge a liberarsi però, più anticapitalistico che ecologico, che la regia sceglie di attenuare in una sintassi scenica talora favolistica, talora più da commedia che da tragedia, con tono anche da vaudeville nella scenografia secca e quasi futurista nel suo trasformarsi repentino, ovvero nel trasformismo degli attori, che più che la necessità sembra indicare una consapevole scelta interpretativa. Ne risulta ammorbidita, se non attutita l'asprezza della scrittura di Mamet, fatta di concretezza narrativa e della capacità di un racconto sciolto ma pienamente aderente agli spigoli di una realtà che evidentemente non piace, nè può piacere se svelata nei suoi crudeli meccanismi autoriproducentisi. Risulta così attenuato anche l'impatto psicologico, dalla sensazione di distacco ironico che una tale sintassi suggerisce. Uno spettacolo comunque consapevole, ben diretto e recitato, gradevole e gradito da un pubblico in gran parte, e fortunatamente per il teatro, adolescente.