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Ho conosciuto Luigi Squarzina per tanti tramiti, ma anche personalmente, ed è stata una esperienza che definirei 'formativa' come credo sia proprio delle intenzionalità e delle modalità relazionali che hanno sempre caratterizzato, nelle sue tante diverse operatività, l'uomo di teatro da pochi giorni scomparso a 88 anni Della conoscenza personale e diretta è frutto una lunga intervista che Squarzina mi concesse nel 2000 per la rivista PAROL di Bologna in cui si tentava un primo bilancio, non tanto esistenziale quanto 'intelletuale' di quel lungo dopoguerra che lo aveva visto tra i protagonisti del rinnovamento del teatro italiano, finalmente fuori dalle secche del provincialismo fascista. Una esperienza anche esaltante, se vogliamo, al di là della patina di disillusione che in un certo qual modo sembrava già affiorare dentro le parole e tra le righe, e che, tra drammaturgie, regie, direzioni di Teatri Stabili ed insegnamento fondativo al DAMS di Bologna, costituisce l'insieme degli altri tramiti, come li ho prima definiti, attraverso i quali ho l'ambizione, o la speranza, di aver conosciuto Luigi Squarzina. Ma non è di questo che qui voglio scrivere, altri lo stanno facendo con più efficacia biografica e documentaria, ma piuttosto di un aspetto che a me pare assai particolare e significativo della vicenda artistica del nostro, di cui la lunga esperienza alla direzione artistica del Teatro Stabile di Genova è paradigmatica. A partire dall'impressione che, a differenza ad esempio di uno Strehler o di un Ronconi che  appaiono nel ricordo o nella percezione contemporanea in un certo senso 'sovraesposti' rispetto al corpus delle proprie realizzazione, di Luigi Squarzina ci si ricorda attraverso l'insieme delle sue realizzazioni, quasi che, in queste, la sua personalità artistica si realizzasse prevalentemente anche attenuando o meglio rielaborando la sua soggettività esistenziale. In effetti Luigi Squarzina è stato drammaturgo nel senso più pieno e completo del termine, in quanto non scrittore di testi solamente, o di regie, o di riduzioni/travestimenti, ma in quanto 'scrittore' di meccanismi od organismi drammaturgici e teatrali direttamente nella loro complessità collettiva e dinamica. A partire dal testo, suo o di altri, come codice della rappresentazione, Squarzina tendeva, e lo ha fatto credo meglio di altri, a costruire direttamente la rappresentazione mediante l'organizzazione estetica delle sue diverse, a volte contaddittorie, a volte contrastanti, componenti e collaborazioni, dall'attore fino ai tecnci di scena. Per questo, forse, il lungo periodo allo Stabile di Genova sembra poter costituire la cuspide della sua operatività artistica, perchè la possibilità di utilizzare un ensemble stabile gli diede la possibilità di realizzare la 'sua' idea di teatro, assai più profonda e complessa di quella generalmente riconosciutagli, a partire dalla elaborazione del repertorio e fino alla possibilità delle repliche grazie ad una positiva continuità della compagnia, e preservando sempre quell'elemento di “didattica” intrinseco ad una tale operatività e che lui stesso mi definì come vocazione implicita al lavoro di regista. Mi si consenta di citare, dalla mia intervista, come Squarzina commenta la scelta di accettare la condirezione allo Stabile di Genova: “Quello fu il passaggio per me, da una attività ad un’altra, perché dirigere un teatro è diverso che fare delle regie sciolte, perché ora parliamo di fare delle scelte, perché si deve scegliere un repertorio. Non solo si può formare un gruppo di attori, ma anche un gruppo di tecnici e, alla fine, si affronta, non voglio dire l’educazione teatrale di una intera città, ma qualcosa che in fondo ci somiglia.”  È in questo contesto che si è potuta realizzare la sua capacità di relazionarsi con il contesto della comunità e con la sua storia, da cui il filone di quel teatro politico che, anche tra forti polemiche, riusciva ad affrontare ed elaborare nel concreto della prassi teatrale anche furibonde dispute ideologiche, ovvero di rapportarsi alla storia attraverso la storia del teatro e la storia dei suoi protagonisti. Basti ricordare 5 Giorni al porto, o il ciclo goldoniano, con i famosi memoirs, o quello brecthiano rivisto con originalità e grande efficacia rispetto alla stessa 'scoperta' Streheleriana, ovvero quel piccolo capolavoro drammaturgico del Molière/Bulgacov.
Uomo di grande ironia, e quindi in grado di consevare un giusto distacco, ed insieme capace di essere 'maestro, ha affidato alle proprie creature drammaturgiche il compito di parlarci del suo modo di intendere il teatro, in cui avanguardia e rinnovamento non hanno voluto dire distacco ed isolamento da un pubblico inteso non come consumatore di teatro ma bensì come comunità cosciente e critica che anche attraverso il suo teatro si fa consapevole ed elabora una propria identità storica e sociale.