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Come annunciato qualche mese fa, prima delle sospirate vacanze estive, il NTFI 2012 riprende il 25 settembre per concludersi il 30. Anticipo di stagione o continuum di un discorso nazionale e internazionale iniziato a giugno scorso, la sessione autunnale del festival ci regala invece produzioni esclusivamente italiane. Ad aprire, il 25 e 26 settembre, troviamo ANTIGONE , spettacolo con la regia di Luca De Fusco,

direttore del NTFI, e drammaturgia di Valeria Parrella, in scena al Teatro Mercadante di Napoli. In effetti, un tocco di tragedia greca ci mancava, e il sentore è che nella prossima stagione forse ne ritroveremo ancora, come elemento vivificante del nuovo teatro italiano e internazionale, come solido fondamento di una grande cultura. La storia di Antigone, conosciuta ai più, deve essere letta nell’ottica di una mentalità universale, ma non solo. Scritta da Sofocle, la tragedia si colloca in un periodo in cui l’uomo greco comincia a riflettere sul suo legame con la divinità: sottomissione o libero arbitrio, dubbi che si frantumeranno in Euripide, suo successore, nei cui testi l’uomo, anzi le donne, saranno fondamentali protagoniste, a scapito di quel deus ex machina ormai in disuso. La consapevolezza dell’uomo di poter avere un potere decisionale sulla società, al di là dell’intervento divino, arriva a degli estremismi sociali e politici,  qui rappresentati dal Legislatore: personaggio che volutamente non compare con il nome originale di Creonte, ma diventa un simbolo dell’ossessiva ricerca di comando e obbedienza. Ma anche lui sarà vittima del suo stesso potere. L’uomo “moderno”, sia nel senso di modernità classica, che di nostra contemporaneità, si impone ma appare confuso. La tendenza a sovrapporre le tematiche classiche a quelle contemporanee è una prassi seguita ormai da tutti i registi che si occupano di tragedie. Potremmo aggiungere è inevitabile. La tragedia greca è facilmente collocabile in ogni tempo, ecco perché non bisogna perdere di vista la sua osservazione e analisi atemporale, universale. Elemento in parte rispettato dalla drammaturgia della Parrella che alla fine, però, ci trascina bruscamente nelle prigioni contemporanee, luogo in cui muore Antigone. La vicenda nasce dalla decisione della protagonista, interpretata dall’ipnotica Gaia Aprea, attrice amatissima da De Fusco, di far morire il fratello Polinice , ferito in battaglia e attaccato ad un respiratore artificiale per ordine del Legislatore. Il tema contemporaneo dell’eutanasia non compare nell’opera originale, in cui invece l’autore classico si sofferma sulla mancata sepoltura del giovane, affronto enorme nella cultura greca, nonché dolore immenso per chi rimane in vita. Nonostante i riferimenti alla contemporaneità compaiano sin dall’inizio dello spettacolo, l’universalità della vicenda sembra prevalere, fino alla conclusione, in cui Antigone non si impicca nella grotta, come nella vicenda originale, ma si suicida in cella con il gas del fornellino. La grandiosità e il significato del gesto in questo modo vengono a mancare, rendendo la protagonista donna comune, non più donna- simbolo di tutti i tempi. Tifoseria pro-classicismo a parte, questo spettacolo sarebbe grandioso anche e soprattutto in una messa in scena all’aperto, presso il Teatro greco di Siracusa, per esempio. Gli attori rispettano una recitazione altisonante, pulita, rigida, così come deve essere, ma che nello stesso tempo emana passioni, dolori, decisioni irrimediabili, eroismo, grandiosità classica. Giustamente collocate le citazioni di parole greche, che emergono come fari all’interno del testo, ovviamente poco comprensibili a chi non si è mai occupato di cultura classica ma non eccessive per evitare inutili chiusure ad un pubblico eterogeneo. La scena viene resa con una forte staticità, in un’oscurità da cui emergono, con chiaroscuri quasi caravaggeschi, le figure dei personaggi, soprattutto i volti. Fasci di luce che fanno emergere dall’oscurità dei tempi simboli, non attori. Brillante la scelta di porre sul proscenio un telo trasparente su cui proiettare i volti degli attori in primo piano: in questo modo lo spettatore riesce ad avere una visione del volto quasi in 3D, a 360 gradi.  Innovazione tecnologica che non stona con la classicità del testo ma ha un significato e funzionalità ben precisi. In fondo, sul palco, l’attore in piedi, in primo piano invece il suo volto dalle enormi dimensioni. Si porta l’attenzione quindi sulle parole, sulle tematiche, sui volti che comunicano, non sul movimento. Le gerarchie e i ruoli sociali vengono rappresentati attraverso una continua verticalità: il Legislatore si trova in alto, su un’impalcatura, rispetto ad Antigone, il guardiano sta sempre sul palco, in basso e mai in alto, il coro ridotto è collocato a metà tra Antigone e il Legislatore, come elemento di comunicazione, Antigone dorme sull’ultima brandina della cella, in alto, a differenza delle altre prigioniere. In questa regia, che a tratti ricorda alcune scelte di The Makropulos Case di Robert Wilson (NTFI giugno 2012) e che ha numerosissimi riferimenti cinematografici, ritroviamo anche un coro composto da due soli personaggi, un uomo e una donna. Corifeo senza più séguito, il coro contemporaneo è sopraffatto dallo sconforto: il popolo non segue più ciò che comunica, il potere, la politica, le leggi hanno soppiantato la libertà di ascolto, la consapevolezza di poter decidere. Se la divinità è stata messa da parte, un nuovo “dio” incombe sull’uomo: il potere stolto e non regolato.  Ottima la scelta delle musiche, firmate Ran Bagno, che caratterizzano i cambi di scena e uniformano le unità di tempo, luogo e azione. In scena anche gli attori Fabrizio Nevola ( Emone), Giacinto Palmarini ( Corifeo), Alfonso Postiglione ( il guardiano), Nunzia Schiano ( detenuta), Paolo Serra ( il Legislatore), Dalal Suleiman (Corifea), Tiresia ( Antonio Casagrande). Una parola ci colpisce ripetutamente: Ἀνάγκη ( ananke). Il destino, il fato, l’ineluttabile. Forse l’uomo non è ancora pronto a decidere da solo.

Altro grande spettacolo legato alla sessione autunnale del NTFI 2012 è ODISSEA NAPOLETANA –IN ASSENZA DEL PADRE, in scena il 26 e 27 settembre presso il teatro Bellini di Napoli, per la regia del giovane  Gabriele Russo, con la collaborazione di Marco Manchisi. Il titolo è già un programma. In effetti Odìsseo o Ulisse, come volete chiamarlo, è il simbolo dell’assenza, ma qui si parla di “padre” e il titolo dovrebbe far già riflettere. Ma stavolta prima di entrare nei meandri di questo complesso spettacolo, vogliamo menzionare Francesco Esposito per l’allestimento scenico. Ebbene sì, delle scene se ne parla sempre, ma qui la menzione è d’obbligo. In effetti ci chiedevamo perché sul biglietto non fossero segnati i posti numerati, anche se a volte capita. Ma la dicitura “Platea vicino l’entrata” ci ha lasciati perplessi. Mentre alcuni spettatori si erano “documentati “ attraverso  le immagini riproposte dai telegiornali regionali e locali, noi abbiamo preteso la sorpresa. Mai visto nulla di simile: la platea non esiste più. Poltrone divelte e panche di legno ( appunto all’entrata!) collocate a mò di piccolo anfiteatro, ovviamente sfruttati tutti i palchetti in alto. C’è qualcosa che non quadra mentre camminiamo. Tacchi e scarpe si infilzano nella sabbia. Ebbene sì: dal palco alla platea un’immensa distesa di sabbia, le pareti ricoperte di cartapesta, le luci soffuse. Siamo nell’antro di Polifemo, sulla sabbia, tra Scilla e Cariddi, tra le onde, siamo ovunque si voglia, ma siamo dentro la storia.
Lo spettacolo rielabora la storia di Ulisse. Ricordate l’eroe atteso da Penelope e Telemaco, che nonostante i luoghi, le peripezie, le sirene, Nausicaa e Circe, Polifemo ed Eolo, nonostante tutto, ritorna? Dopo tantissimo tempo, ma ritorna. Dimenticate tutto questo. L’eroe non tornerà. L’assenza del padre è proprio questa. Nato da un progetto a cui hanno partecipato numerosi giovani attori napoletani, più una “guida”, l’attore-regista Pippo Cangiano nei panni di un Polifemo ironico, sadico, ma consapevole, lo spettacolo presenta evidenti spunti laboratoriali. È evidente una fortissima collaborazione tra regia e attori, dimostrando un’omogeneità notevole tra i partecipanti. Lavoro faticosissimo, non solo dal punto di vista recitativo ma soprattutto fisico, sia per la disposizione della scena, sia per il movimento continuo, fluido, ad incastro, a cui vengono sottoposti i muscoli  e i corpi degli attori. Musica e movimento non devono far pensare ad un musical, anche se a tratti qualche scena ricorda il genere, ma il grottesco, la carnalità, la crudezza di alcuni momenti si collegano  all’indole partenopea di far teatro, oltre alle citazioni che toccano il fumetto, il cartoon, le scene del Rocky Horror Picture Show, fino al cinema di fantascienza datato anni ’90. Un mix eterogeneo che sorprende continuamente il pubblico, rischiando a volte di diventare, però, un calderone stracolmo, nonostante il limite non venga mai superato. Tra colpi di scena e attori praticamente ai nostri piedi,  Penelope e Telemaco sono presenti, i Proci anche. E qui di Ulisse neanche l’ombra, perché l’eroe viene visto con gli occhi di un figlio che attende un’illusione, e di un popolo che aspetta quasi un messia, un simbolo della rivoluzione. In effetti il filo conduttore dell’Odissea, quella classica e originale, alla fine si perde. Gli spettatori adesso vedono Telemaco come protagonista, non più come figlio di Ulisse, nonostante all’inizio  rappresenti un’identificazione e sovrapposizione temporale con il padre. I Proci indossano le bombette, ricordano i giganti della montagna pirandelliani, oppressori non solo politici, ma soprattutto artistici, come per gli abitanti della villa di Cotrone.  Ulisse non tornerà, Penelope rimarrà prigioniera, Telemaco aspetterà ancora, e il popolo purtroppo, dopo un primo impeto di rivolta, soccomberà. Una “soubrettina-gatta” al guinzaglio dei Proci continuerà ad apparire e scomparire, facendo il lavaggio del cervello al popolo. La nostra televisione in carne, ossa…e qualcos’altro! Dal popolo-coro che costituisce il fulcro della compagnia, nel corso dello spettacolo si dipanano i ruoli dei singoli personaggi: come un ventaglio che si apre e si chiude, distinguendo i volti. Le scelte registiche sono entusiasmanti, dalla prima scena in cui gli attori sbucano da ogni antro della platea e del palco, come scarafaggi o gatti alla ricerca di qualcosa, fino alla stupefacente scena in cui il rumore di pioggia e onde sulla nave di Telemaco, vengono riprodotti dagli attori con violenti colpi delle mani sulle spalle e sulla pelle. Secchi e acqua compresi, che vengono gettati sull’infangato protagonista, bagnando la sabbia in platea.  I Proci avranno la meglio, il popolo ritornerà a scavare sulla sabbia, angosciosamente, come un animale. La ricerca, l’attesa, l’illusione rimangono i fili conduttori dell’intero spettacolo. Noi ce ne torniamo a casa con un po’ di sabbia sui vestiti e gli occhi colmi di sorpresa.

Anche la sessione autunnale del NTFI 2012 si conclude dopo un lungo viaggio cominciato a giugno, tra le produzioni nazionali e internazionali, le novità, i debutti, il dopo festival e l’estate napoletana. In attesa del festival 2013, sinonimo ormai di inizio estate, aspettiamo soprattutto l’apertura della nuova stagione teatrale, in cui ritroveremo alcuni degli spettacoli che hanno debuttato proprio durante il NTFI 2012. Quindi, per i ritardatari o per chi non è riuscito a vederli tutti, l’appuntamento con il cartellone invernale dei vari teatri cittadini sopperirà a queste mancanze.

L’ultimo spettacolo del NTFI 2012, almeno per noi, è Tà-Kài-Tà, di Enzo Moscato, con Isa Danieli e lo stesso Moscato, in scena dal 27 al 29 settembre al  Teatro Nuovo di Napoli. Tre elementi, quindi, che compongono una parte della storia del  teatro napoletano: Moscato e la Danieli, per non parlare del famoso e storico teatro ai Quartieri spagnoli. Ma c’è un perno, una radice, molto più profonda su cui si basa questo lavoro: Eduardo De Filippo. Ma attenzione. Non si racconta né la sua vita in chiave biografica, come potrebbe sembrare ad un’osservazione superficiale, né si mette in scena o si rielabora un suo spettacolo. Ricordiamo che la Nuova drammaturgia napoletana, in cui viene ormai inserito anche Enzo Moscato, si distacca per tematiche, testi e ambientazioni, dalla tradizione teatrale napoletana e anche dallo stesso De Filippo. Gli autori della Nuova Drammaturgia sono stati spesso definiti “figli di Eduardo” ma con un approccio alla tematica sociale, alla storia e all’uomo, completamente diverso. Il titolo di questo lavoro è semplicemente scritto in greco: Τά-κάι-Τά, che significa questo  e quello. La duplicità, la dualità, il Giano bifronte, costituiscono il leit motive,  fondamentale per comprendere la realizzazione  scenica. Il sottotitolo dello spettacolo è infatti “Eduardo per Eduardo”. Di certo Moscato gioca con il suono della lingua greca e anche  all’interno di questo testo, lo studio sulle sonorità delle lingue, sempre presente nei suoi lavori, emerge fortemente. Tra lingue antiche o inventate, la musica non manca: non solo quella napoletana ma anche quella greca, medio orientale, mediterranea. Moscato e Isa Danieli rappresentano due visioni di uno stesso Eduardo. Ma  non ci si sofferma sul personaggio famoso, sul genio teatrale, bensì sull’uomo. La sua facciata stereotipata e il suo essere autentico allo stesso tempo si mescolano e si scindono continuamente. I due attori indossano gli stessi costumi: pantalone nero, camiciona bianca, codino di capelli bianchi. Due leggii:  si apre davanti agli spettatori un palcoscenico apparentemente statico, con uno sfondo di un edificio, un catafalco coperto al centro, due sedie. Simbolicamente importante, il catafalco centrale, collocato in una posizione ricca di significato, non divide ma collega fortemente. Si immagina un Eduardo che ci parla dall’al di là, ma a tratti sembra essere ancora sul palcoscenico, a momenti neanche lui si rende conto di dove sia andato. Aneddoti di vita, forse come De Filippo non li avrebbe mai raccontati, in cui viene regalato allo spettatore un mondo che in genere è inaccessibile. Pensieri, riflessioni, fatiche, speranze, progetti, come quello di un film con l’amico Pasolini, improvvisamente e tragicamente scomparso. L’autore, il  regista, l’attore, che apre le porte di un mondo misterioso, quello del teatro, alla platea che ascolta rapita. Il tutto scorre nelle menti come immagini di un film su pellicola, nonostante i movimenti sulla scena siano fluidi, accennati, delicatissimi.  Il mondo della morte per un artista non è quello dei comuni mortali. O forse sta a metà.  Bisogna davvero morire fisicamente per smettere di recitare? Quando muore davvero un attore? La voce rauca e affascinante di Isa Danieli si trasforma in quella di Eduardo che veste i panni di Shakespeare nella sua Tempesta in traduzione napoletana. E anche qui mai morte artistica fu più bella di quella pronunciata da Prospero nella chiusura del testo shakespeariano. C’è un filo, quindi, che cuce la duplicità e simmetria di questo spettacolo: il concetto di morte. C’è la morte fisica, mentale, artistica, e quella degli affetti. Il catafalco al centro si scopre: una bambina in una bara. Ci ricorda la morte della figlia di Eduardo, ma Moscato riprende esattamente le fattezze della piccola Rosalia Lombardo, bambina palermitana sottoposta nel 1920 alla pratica della tassidermia, e oggi ancora intatta nella Catacomba dei Cappuccini di Palermo, insieme a centinaia di mummie. Si può bloccare apparentemente la morte? Come si può bloccare il dolore? La morte è davvero disfacimento nella storia e della storia?  Moscato, insieme ad una splendida Isa Danieli, mette in scena un testo elegante, importante, ricchissimo di spunti di riflessione. Un testo filosofico in cui Eduardo diventa un simbolo dell’arte e di una vita in cui il confine tra realtà e irrealtà artistica scompare, a volte in maniera incomprensibile per chi è solo spettatore. Ma quando si inserisce la morte al centro di questo confine, questa che sembianze assume? Un pubblico selezionato per un testo che può essere letto attraverso diversi livelli, ma fermarsi al primo comporterebbe la  perdita di una particolare ricchezza di contenuti. Moscato è un intellettuale del teatro, che sa ricoprire il tutto con un alone impalpabile di teatralità, sotto il quale sono conservati dei significati profondi che lui ci spinge continuamente a trovare e che non sembrano mai estinguersi, neanche dopo la conclusione dello spettacolo. Ancora una volta, quindi, il confine non esiste.