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Una celebre canzone di De Gregori dice “la storia siamo noi”: certo, una grande verità che bisognerebbe sempre tener presente e non solo quando la nostra vita incrocia eventi che possono cambiare il mondo, ma anche nel suo dispiegarsi ordinario, anonimo, quotidiano, anche quando il nostro agire non produce effetti che cambiano modificano la realtà e non finisce sui giornali, né tantomeno nei libri di storia. In qualche modo vita e storia sono intrecciate, si appartengono reciprocamente, si attraversano e, l’una sull’altra, riflettono continuamente la loro verità. Ecco il nodo di “Salvatore, favola triste per voce sola”, lo spettacolo/monologo di e con Silvio Laviano (attore catanese formatosi nella scuola dello Stabile di Genova) per la regia del napoletano Tommaso Tuzzoli, che s’è visto venerdì scorso sulla scena della Sala Lomax a Catania: la verità di una vita qualunque che diventa sulla scena la verità di una città, di un mondo, grande o piccolo che sia, di una generazione intera. Avete presente Catania? è una città luminosissima e rumorosa, sensuale, brulicante di suoni e odori, una città nera eppure mai spenta, mai vinta, una città strutturalmente ed emotivamente provinciale eppure capace sempre di trovare, nel magma incandescente della sua vitalità, voci che sanno raccontarla e ricollegarla amorosamente al mondo intero. È questa città/comunità che Laviano racconta con intelligente capacità di usare il dialetto catanese, entrando e uscendo con grande fluidità e rigore dall’impasto emotivo e culturale che esso implica, ed ancora ottima presenza scenica, ritmo e grande tecnica attoriale: in cinque quadri (la nascita precoce, l’infanzia e la famiglia, l’adolescenza e la scoperta dell’amore, la morte che entra nella vita e la taglia e la definisce, il lavoro in un centro commerciale e il nuovo volto della città) la vita di Salvatore, un giovane catanese, dal nome tanto comune quanto pregnante, si dispiega nella verità di una città che passa dalla continua ed ancestrale invocazione a Sant’Agata alle lunghe giornate passate in spiaggia (ai lidi della Plaja) a giocare e a mangiare pastalforno e cotolette e peperoni fritti e angurie con la famiglia, allargata alle zie, ai cugini e all’intero quartiere, dalla scoperta del crescere impetuoso del proprio corpo (sotto la doccia col “pino silvestre”) ai lunghi giri col motorino, ai primi amori, dall’incontro con la morte del padre che senza tanti complimenti ti schianta e ti rende adulto, al lavoro infine. Un lavoro qualunque certo, eppure anch’esso del tutto tipico: direttore del reparto giardinaggio in un enorme centro commerciale: ovvero la contemporaneità più velenosa che entra nella nostra vita, il consumismo fatto religione colorata, rigorosa ed assoluta, il feticismo ossessivo della merce, la mistica dell’acquisto massivo che quasi annulla le credenze più ancestrali, gli affetti, i colori e i sapori della nostra esistenza, che occupa militarmente la vita fino a far perdere l’equilibrio al giovane Salvatore, fino a condurlo sull’orlo della follia e del delitto. Il tutto dentro un percorso drammaturgico solido, ricco di toni (dal comico all’ironico, dal tragico al grottesco), composito, e però incapace, quasi per amore della storia raccontata, di dire di no a particolari ridondanti che appesantiscono eccessivamente la piece e poco aggiungono al senso complessivo del lavoro.