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Al teatro Duse di Genova fino al 23 dicembre questa importante produzione del Teatro Stabile del Veneto che offre una importante occasione ad un testo originale ed ambizioso. Originale ed ambizioso perchè Wordstar(s) affronta il teatro contemporaneo nel suo nucleo forte e nella sua ossessione più contemporanea, quella del senso che si sfalda nella decadenza progressiva di una lingua e di una parola

che scopre, con fascino e ribrezzo, priva di radici significative e quindi di sentimento. Vitaliano Trevisan, che ne è il drammaturgo, lo fa non narrando di Becket, di cui il protagonista Samuel è evidente riferimento in forma quasi di ricordo a stento recuperato, ma parlando della e con la sua scrittura insieme 'poetica' e quotidiana di una relazione ossessiva e infelice con la lingua che declina al silenzio e si arrovella nella ripetizione grottesca di sé stessa che nulla rivela se non appunto il “nulla che c'è”. Ognuno ha la sua strada in questa drammaturgia, strada senza dialogo, ma ognuno ha il medesimo approdo. Così Suzanne e Billie, la moglie e l'amante di Samuel, nn solo non interloquiscono tra di loro, accastando l'una sull'altra contraddizioni e contrasti che mai si sfiorano, ma addirittura nulla ci dicono di Samuel che a loro è sopravvissuto. Ecco così che alla forza della razionalità che indaga la parola subentra l'amgoscia del vuoto non solo intellettuale ma anche esistenziale e fisico, quello di un corpo che si decompone nella vecchiaia che sembra nulla conservi o trasmetta. Del resto il rapporto di Beckett con le donne, segnato dall'inesaurito ed irrisolto conflitto con la madre, diventa sintomatico non solo dell'incapacità di relazionarsi psicologimante ed affettivamete in modo positivo, ma anche della impossibilità di narrarsi con gli strumenti che il tempo contemporaneo ci mette a disposizione, in una assenza di senso pervicamente cercata ma anche angosciosamente vissuta. Nella vittoria di Beckett sulla parola che ha smascherato non rimane dunque che una sofferenza grottesca al limite del comico. È dunque il tempo che scorre l'unico dominio intatto e però 'silenzioso' di questo nostro mondo che alla fine impedisce ogni identità perchè impedisce ogni identificazione, perchè “never the same but the same as what for God's sake did you say I to yourself in your life come on now could you ever say I to yourself in your life” (da That time). E l'amgoscia si fa rabbia, la rabbia che richiama sul proscenio Thomas Bernhard che insieme a Francis Bacon, ispiratore in tutta evidenza del contesto scenico e scenografico, è l'altro referente, l'altro 'ricordo' di Trevisan, una rabbia in Beckett nascosta ovvero simulata in quella “abitudine che è il ceppo che lega il cane al suo vomito”. L'esposizione del nulla manca dunque anche di una dichiarazione, di una definizione inultilmente richiesta dallo studioso Knowlson. In questo il fallimento di Beckett e di Bhernard sembra diventare evidente ma l'aver lasciato a noi un così arduo compito, avendoci privato con ostinazone di ogni ipocrisia tranquilizzatrice, lo trasforma in un 'successo' ovvero in un 'dono' che il pubblico ha saputo apprezzare. Come detto la drammaturgia è del bravo Vitaliano Trevisan ed il testo è ben sviscerato e trascitto in scena dalla regia di Giuseppe Marini. In scena un Ugo Pagliai “Samuel” che mette a disposizione una indubbia sapienza recitativa in un sfida difficile ma vittoriosa. Con lui Paolo Gassman e Paola di Meglio, ben dentro il personaggio, l'ironico Alessandro Albertin (Knowlson). Scene, costumi, musiche e luci rispettivamente di Antonio Panzuto, Gianluca Falaschi, Marco Podda e Pasquale Mari.