E’ appena finita, la guerra. I soldati sono ancora in giro, ma il pericolo sembra decisamente alle spalle. La guerra è stata terribile, qualunque guerra essa sia. Balcani, Cecenia o chissà dove. La famiglia sembra sfasciata, il marito non si vede da due anni, forse sarà morto combattendo. Piccole scene di ricostruzione quotidiana, l’acqua da andare a prendere al pozzo là in fondo, la voglia di sorridere repressa dal dolore visto e patito. Ma un giorno lui, il padre, il marito, il reduce compare alla porta. E qui inizia il dramma. Nell’ambito della sezione “Puglia in scena a Milano”, fino al 27 gennaio al teatro Elfo Puccini di Milano va in scena questo ruvido ma assai coinvolgente testo di Lars Norèn, per la regia di Marinella Anaclerio. Poeta, romanziere e drammaturgo tra i più controversi del panorama contemporaneo, ha già affascinato il pubblico milanese nella stagione teatrale passata con “Freddo”, alienante spaccato di paesaggio interiore di cui il razzismo è la chiave di lettura più atroce. Tra denuncia e svelamenti del male che si annida in fondo al cuore umano, la Compagnia del Sole mette in scena in modo molto convincente e vibrante gli psicodrammi dei personaggi di “Guerra”, testo del 2003 che sta facendo il giro dei teatri del mondo per la sua capacità di rappresentazione sintetica della complessità tutta moderna degli abissi umani. Dove sta il bene e dove sta il male? In ogni luogo, senza distinzione, con una annichilente dimensione di coesistenza che impedisce di salvare e di condannare definitivamente ciascuno dei personaggi. Il male marcia mano nella mano con la solitudine, quella più nera che deriva dal senso di aver perso tutto. O di perdersi tutto ciò che sta poco lontano. Vogliono partire, lasciare tutto per andare fino là dove tutto è migliore. Ma non riescono a farlo mai, incapaci di allontanarsi davvero dalle rovine della loro casa che sono anche il fulcro del dramma di ciascuno. Non c’è amore per il reduce di guerra, divenuto cieco. Solo rabbia, sfuggevole raccapriccio. Lui, con le sue storie terribili di lagher, lui con il suo bisogno di contatto fisico, lui con la sua animalesca rivendicazione del possesso della moglie. Ma lei se ne era fatta una ragione, anzi aveva scoperto di non amarlo poi così tanto grazie all’abbraccio del cognato, di ben altra dolcezza. Il marito-padre-padrone esige il suo tributo, insidia la figlia maggiore come se non fosse per sua volontà, spinto da un demone che lo guida a percorrere il suo fato già scritto. Il sesso diventa la metafora dell’abbruttimento dell’anima, soffocata dal contesto e uccisa nella sua capacità di immaginazione e sogno. C’è Edipo ed Elettra, c’è Agamennone e Clitemnestra, c’è la tragedia antica con quel senso di ineluttabilità che l’esistenza porta con sé, come se agli uomini toccasse solo sporcarsi le mani immergendosi in quel triste marciume che i Numi hanno chiamato Destino. Cosa c’è in fondo a quell’abisso, cosa si annida sul fondo di quel pozzo che è l’anima umana? La conclusione ella pièce pare una risposta chiara che non ammette appello.
Foto Giambalvo & Napolitano