Recensioni
Drammaturgia contemporanea in scena

- Scritto da Maurizio Sesto Giordano
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Alla Sala Verga di Catania è andata in scena, dal 28 aprile al 7 maggio, la pièce "Centoventisei" di Claudio Fava ed Ezio Abbate, tratta dall’omonimo romanzo, drammaturgia, scene e regia di Livia Gionfrida, lavoro inserito nel cartellone di prosa 2022/2023 dello "Stabile" etneo. L'atto unico di circa 80 minuti, è prodotto dal Teatro Biondo di Palermo e dallo "Stabile" di Catania ed è interpretato da David Coco, Naike Anna Silipo e Gabriele Cicirello, assistente alla regia Giulia Aiazzi, disegno luci di Alessandro Di Fraia. Al centro della messa in scena, con un scenografia volutamente scarna e fredda (così come gli esseri umili e manovrati che si muovono sul palco), riempita poi da alcuni componenti (ruote, sedili ed una portiera che penzola a dei ganci) di una centoventisei, l’auto che la mafia decise di rubare per compiere la nota ed agghiacciante strage di via D’Amelio a Palermo. In una atmosfera paradossale, di dramma sociale e commedia dell’assurdo, si muovono i protagonisti, vittime e carnefici del loro stesso ambiente: Gasparo (reso con assoluta padronanza da David Coco) nei panni del killer incaricato del furto dell’auto, il picciotto Fifetto, apprendista mafioso per discendenza, distratto dalle

- Scritto da Maria Dolores Pesce
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Sarà la confusione dei tempi, o la nebbia della ragione, oppure il fumo della perdita esistenziale e delle perdite interiori, ma, nella oscurità del campo di battaglia e del saccheggio dopo la sconfitta, il lamento dolente dei vinti si mescola e confonde con le grida dei vincitori, sovrapponendo in un universo di guerra perenne il senso dell'uno nel significato dell'altro, senza che l'uno soverchi l'altro o viceversa. Così mentre “Tutto brucia” Ecuba e le altre hanno finalmente e paradossalmente vinto, privando la guerra, che le ha sconfitte e rese schiave, del suo senso, del suo illusorio fondare un nuovo mondo (maschile e patriarcale) sulle ceneri del vecchio. Dunque, anche se per secoli tutti abbiamo finto di non accorgercene, ora su quel campo di battaglia è forse venuta l'alba tanto attesa, il tempo cioè di giudicarne i vincitori perché nessuna vera e sincera civiltà può nascere dall'eccidio e può vivere sulla schiavitù. Ecuba e le altre hanno paradossalmente vinto in quanto sono comunque rimaste, nella scrittura che ne ha definito la parola, su quel campo di battaglia, anche se trascinate altrove dai loro nuovi padroni. E hanno ancor di più vinto proprio in quanto di quei nuovi padroni si è persa, in

- Scritto da Maurizio Sesto Giordano
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E’ un monologo intenso, dal linguaggio immediato e crudo, che parla di mancanze, di assenza, di amore smisurato, di vite segnate da un destino crudele. Stiamo parlando di “Cirasedda non abita più qui” di Roberta Amato e Alice Sgroi, una rappresentazione di grande impatto, tratta dalla cronaca dei giorni nostri, in scena al Teatro del Canovaccio di Catania, con Vincenzo Ricca e la regia di Nicola Alberto Orofino. Testo intenso, interpretazione forte e vissuta per una pièce che, in circa 60 minuti, trasporta il pubblico in una dimensione che, solo apparentemente, è lontana da tutti noi. Su una scena volutamente vuota (c'è solo una tendina e pochi oggetti), come molte delle nostre vite o giornate, il protagonista narra la storia amara, commovente, di un giovane che ritorna dopo anni nel luogo dove è cresciuto e da dove è stato strappato per avere un futuro, per conseguire una laurea, per sfuggire ad un destino già scritto, dall’amore smisurato di una madre assente, ma sempre lì, a casa, vicino a lui. Nella nostra strana vita capita, a volte, di amare anche l’assenza, il luogo complesso, alienante, dove cresci e vivi la tua vita, gli amici ed i conoscenti che lo popolano, il volto, l’essenza, la dolcezza e la tristezza di chi ti ha messo al mondo e che per un destino immutabile ti deve, prima o poi, lasciare andare via. Tutto ciò succede a Natale, un dodicenne, soprannominato dalla mamma, per i suoi occhi

- Scritto da Emanuela Ferrauto
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Il sipario è già aperto, ma l’ipotetica quarta parete è caratterizzata da un telo trasparente su cui è proiettato un volto di uomo che dorme e sogna; pian piano si sovrappone l’immagine del suo cervello e in sottofondo ci accompagna la musica di Nicola Piovani, firma della colonna sonora di questo spettacolo. Quando il telo trasparente si alza, lo spettatore è investito da un fortissimo odore, quello inconfondibile del mobilio di scena: un’enorme biblioteca, o scorcio di scaffali di biblioteca, riempie le quinte laterali del palcoscenico. Sapienti le luci che, nel disegno di Peppe Cino, creano una soffusa oscurità grigiastra, concentrando l’illuminazione su alcuni oggetti riposti sugli scaffali di questa antica biblioteca: una valigia, volumi, copioni, carte, un busto antico, giocattoli. L’archivio dei sogni emana un inteso odore di legno, carta, colle e pitture che investe la platea, cosicché lo spettatore si sente improvvisamente catapultato e risucchiato sul palcoscenico, cuore pulsante dell’arte, cervello sognante di ogni autore. In effetti, sul fondo della scena, si apre un grande vuoto scuro, a tratti costellato ed illuminato da lucine e stelle. Il fondo del cervello, l’esterno della mente, il profondo dell’anima: tutto è

- Scritto da Laura Bevione
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Quanto siamo consapevoli di ciò che realmente desideriamo essere? E a quali certezze siamo disposti a rinunciare per re-imbastire la nostra esistenza con fili nuovi e apparentemente meno tenaci? Questi gli interrogativi sottesi alla mordace commedia composta nel 2012 dal britannico David “D.C.” Moore che realizzò una sorta di adattamento-riscrittura del film Humpday, scritto e diretto da Lynn Shelton e presentato all’edizione 2009 del Sundance Festival. La pellicola venne etichettata come modello di mumblecore, sottogenere della filmografia indipendente caratterizzato da una recitazione e da dialoghi naturalistici, questi ultimi apparentemente frutto di improvvisazione, e dall’attenzione incentrata sui rapporti fra trentenni. Peculiarità che forse aveva in mente Silvio Peroni nell’architettare il primo allestimento italiano del play: non ci sono scenografia né oggetti di scena – a eccezione della telecamera che, nondimeno, riveste un ruolo drammaturgico decisivo – e la recitazione è piana e aliena da artifici ridondanti. Una scelta di essenzialità e di asciuttezza che, anziché rimandare a una possibile povertà di mezzi produttivi – come è il caso del mumblecore – è temeraria volontà di concentrare la

- Scritto da Maria Dolores Pesce
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Lo sguardo crudele sul male, secondo la spiazzante drammaturga spagnola Angelica Liddell, è necessario all'essere umano, ad ogni essere umano, affinché possa rappresentarsi ed essere rappresentato nella sua più irriducibile sincerità o essenza. Ma per non ridimensionarsi a superficiale voyeurismo ha bisogno di utilizzare, a sua stessa difesa e a protezione della stessa sincerità, quello strumento potentissimo che è la “carità”, la cui forza, che non ha bisogno di spiegazioni o giustificazioni, è tratteggiata liricamente e metafisicamente, dunque anche religiosamente, da Paolo di Tarso nella sua prima lettera ai Corinzi (CAP. 13): “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.” Ho detto anche religiosamente riferendomi proprio a questa suggestione, che è una sorta di innesco per una esplosione drammaturgica articolata e differita in tappe figurative e linguistiche che occupano progressivamente, fino ad intasarla, la scena della