Recensioni
Drammaturgia contemporanea in scena

- Scritto da Maria Dolores Pesce
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Da una parte, e prima, c'è l'enigma intellettuale, drammaturgicamente rappresentato dall'iconico emergere dal buio della sala di personaggi pirandellianamente ancora alla ricerca di una sincerità ontologica, dall'altra, e dopo, l'immersione nel sangue dei sentimenti che ripropone l'enigma profondamente concreto del rapporto tra carnalità e affettività, suggerendo scritture teatrali ora spesso dimenticate ma di grande spessore, quelle del Rosso di San Secondo della “Bella Addormentata”, ad esempio, che racconta di una prostituta ingenuamente inconsapevole e sospesa al suo tragico destino. “Immacolata Concezione”, questa interessante drammaturgia di Joele Anastasi già da noi pubblicata nel 2018 nella rubrica curata da Damiano Pignedoli, si muove immersa in un ambiente di suggestioni e corrispondenze teatrali e narrative ricchissime, ivi compreso il crudele realismo verghiano, senza esserne in alcun modo dipendente in quanto è capace di destrutturare e ricostruire un

- Scritto da Barbara Berardi
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Al Teatro Cometa Off di Roma ha debuttato dal 7 al 12 febbraio un’interessante pièce teatrale, una storia dolorosa e commovente, che attraverso un testo leggero e brillante, è riuscita a portare sulla scena il legame intimo e indissolubile tra una madre e sua figlia. “Il più bell’addio” racconta di Angioletta (Beatrice Fazi) e sua madre (Marina Zanchi), due donne dal temperamento impetuoso che si ritrovano a confrontarsi sulle questioni irrisolte del loro rapporto, scoprendo le proprie debolezze e le fragilitá del loro legame. La cifra dialettica della pièce sostiene il ritmo serrato di un dialogo sofferto ma necessario, dove la frustrazione di Angioletta, causa un matrimonio fallito, il non essere diventata madre e il continuo e logorante paragone con il fratello "Paolino dieci piú", si scontrano con la calma e la pungente ironia della madre che vorrebbe in qualche modo smorzare l'esasperazione della figlia. Il tutto avviene dentro un piccolo guscio teatrale dal gusto un po’ rétro, arredato con quello stile tipico delle

- Scritto da Paolo Randazzo
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Il teatro di Lina Prosa non autorizza mai, e in nessun modo, semplificazioni interpretative: è un teatro d’arte mai banale, militante, sofisticato, capace di stare integralmente nella realtà e schierarsi politicamente senza perdere la sua collocazione nella più profonda e spesso impervia complessità della parola poetica. Non è poco, è una cifra di poetica teatrale importante, singolare ed è giusto che sia considerata in quanto tale. Ogni allestimento che parte da un suo testo si delinea sempre, nel bene e nel male, come una lotta molto interessante tra la vertigine della connotazione della parola poetica - che giustamente va difesa e persino amplificata - e la necessità che in essa, nella sua trama emotiva e nel suo respiro ritmico, possa (o sappia) trovare spazio sulla scena un’azione teatrale chiara, intellegibile e percepibile dal pubblico. È quanto vien fatto di pensare in margine a “Ulisse artico”, lo spettacolo che si è visto in prima assoluta a Palermo, dal 25 gennaio al 5 febbraio, sulla scena della Sala Strehler del Teatro Biondo. Il testo è appunto della Prosa ma questa volta la regia è esterna al lavoro creativo di questa drammaturga palermitana (e profondamente europea) ed è affidata a Carmelo

- Scritto da Maria Dolores Pesce
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Questo, scritto da Luigi Gozzi e da lui stesso rappresentato la prima volta nel 1979, è un testo che potrei definire, sfruttando la grande 'elasticità del termine, sperimentale (soggettivamente e anche oggettivamente) sia da un punto di vista più generalmente drammaturgico che da quello più specificatamente linguistico e sintattico. È l'impressione che il drammaturgo ha del proprio scritto, ed è l'impressione che dunque suggerisce e comunica al lettore e allo spettatore, quando, sul primo versante, sovrappone e reciprocamente analogizza la rappresentazione drammatica con la seduta psicoanalitica, anche al di là del rispettivo contenuto di narrazione. E ancora di più lo è (sperimentale intendo) sul secondo versante proprio nelle parole che Luigi Gozzi utilizza nella postfazione della edizione a stampa del 1991 (in uno con l'altra pièce freudiana “La doppia vita di Anna O:”) e titolata appunto “La seduta terapeutica come situazione drammaturgica”: <<Quando ho scritto il “Freud e il caso di Dora”, a lasciare da parte gli interessi personali, volevo sfuggire alla odierna inevitabile costrizione tautologica del teatro, il quale o è in preda a una dimensione aprioristica dei propri mezzi (del

- Scritto da Maria Dolores Pesce
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Sospesa tra iperrealtà e metafisica questa drammaturgia di Fiammetta Carena è una sorta di 'spacco', nel senso proprio di violenta e rapinosa effrazione, di quelle lenti di ipocrisia che tentano di sovrapporre alla realtà una qualche maschera di perbenismo, oggi si direbbe di “politicamente corretto”, per cercare di guardare direttamente negli occhi quel disagio profondo dei tempi che stiamo vivendo. Oltretutto quelle stesse lenti non sono più in grado di nasconderlo e così, paradossalmente ma non troppo, moltiplicano il disagio, propagandolo sempre di più, come una vera e propria epidemia 'metaforica'.È un testo duro e spesso perturbante che ricorda certa drammaturgia di area germano-austriaca a cavallo tra novecento e ventunesimo secolo, da Thomas Bernhard a Elfriede Jelinek per intenderci, senza ribadirne la caratteristica del molto articolato flusso narrativo, ed è capace a mio avviso di disegnare, con tratti essenziali, le pareti di un 'vuoto', che ha le forme di un villaggio turistico/marino come tanti, in cui precipitano esistenze tipicizzate e dunque iconiche, ed in esse e con esse le angosce che le (ci) attraversano come un sordo rumore di fondo. La messa in scena, per la

- Scritto da Laura Bevione
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Un attore di giro convertitosi al cabaret va a trovare la figlia – separata e con due figli adolescenti – che non vede da molti anni e con cui, inevitabilmente, la relazione non può che essere tutt’altro che schietta e placida. È una sera piovosa e la figlia è angustiata per le esose conseguenze di una bravata compiuta dal suo primogenito, situazione assai delicata che si trova ad affrontare da sola – non solo il marito l’ha lasciata ma forse le amiche non sono molte… Questa, in sintesi, la premessa del nuovo dramma di Armando Pirozzi, messo in scena, com’è consuetudine, da Massimiliano Civica e interpretato dal “maestro” Renato Carpentieri e dai giovani – e ancora decisamente acerbi – Vincenzo Abbate e Maria Vittoria Argenti. Su una scena occupata da pochi arredi – un tappeto, una poltrona, un vaso con piume di pavone e un baule che è anche mobile-bar – si dipana una lunga serata, che diviene poi nottata, durante la quale emerge, da una parte, la solitudine della figlia; dall’altra la scelta, egoistica e ammantata da un certo testardo infantilismo, del padre, che preferì il palcoscenico alle responsabilità familiari. Accanto ai due, compare a un tratto la figura di un giovane collega del padre,