Il dramma del mese
Alex M. di Mauro Maggioni e Claudio Tomati
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Alex M premio speciale della giuria al Riccione Teatro 1997 è stato scritto, in coppia a Mauro Maggioni, da Claudio Tomati, autore scomparso nello scorso dicembre per le conseguenze di una leucemia a soli 41 anni. Tomati, che per un decennio ha scritto in team con Maggioni, ci ha lasciato una raccolta di testi, spesso riconosciuti nei più significativi premi nazionali, in cui la sensibilità alle tematiche civili è riuscita a indirizzarsi con rigore sulle tracce di un’etica di matrice laica, a tratti irrobustita da un’ironia cruda e personalissima. Lunedì 2 maggio, alle ore 21:30, presso il Teatro Guanella di Milano, gli amici ed i colleghi di Claudio (Eugenio Allegri Tommaso Amadio Sonia Antinori Maria Ariis Massimo Bavastro Massimo Bologna Fausto Caroli Toni Caroppi Veronica Cruciani Marco Filatori Giovanni Franzoni Giusy Frallonardo Marco Fubini Aram Kian Matteo Lanfranchi Mauro Maggioni Lucia Mascino Mario Nuzzo Francesca Pavoni Lorenzo Piccolo Fausto Russo Alesi Alessandro Sampaoli Valeria Talenti Antonio Tarantino Filippo Timi Barbara Valli e l'intervento di Franco Quadri) lo ricorderanno con una serata che si articolerà attraverso tre lavori, tutti scritti in coppia con Maggioni: Skins-Assalto al Paradiso, Alex M ed E la gente guardava stupita.
Il Premio speciale della giuria Riccione Teatro 1997
"Specialisti in vite immaginarie di giovani uomini illustri, Maggioni e Tomati, dopo il bel lavoro su Marlowe, mettono in scena Alessandro Magno in versione aggiornata, facendo dell’ambizioso conquistatore Macedone un capobanda on the road con la sua macchina nera e i suoi boys, in giro per discoteche, in un bagno di degrado metropolitano, sesso, droga e rock’n‘roll, non sdegnando magnetismi che dal fumetto conducono al pulp, fuori dal tempo ma molto nostro in un ritratto aureolato dal Sole Nero dell’autodistruzione. Con un narratore che ne regge i fili in un esperanto di lingue, dialetti e luoghi comuni da sfigati e una forte carica d’energia vitale."
Di cosa parla
La parabola di Alessandro Magno è riversata con coerenza e visionarietà in un ambiente da periferia urbana, dove un gruppo di ragazzi, trascinati dalla frenesia di novità di un fantomatico Alex M, sotto i cui tratti si intravede l'Alex inventato da A.Burgess per il suo "Clockwork Orange", si dedica a un viaggio di conquista le cui tappe coincidono con le squallide ambientazioni di un nichilistico romanzo di formazione contemporaneo. L'autostrada, il parcheggio, la discoteca, diventano quindi, come in un fumetto, le stazioni drammatiche di un mito di oggi, con un effetto di schiacciamento in cui passato, presente e futuro, mito, leggenda, quotidiano, alto e basso colano nella medesima forma, forgiando la mirabolante lingua di una Babilonia da III millennio.
Storie di scorie di Ulderico Pesce
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Storie di scorie è in scena al Teatro dell’Orologio di Roma dal 6 al 24 aprile 2005. Diretto e interpretato da Ulderico Pesce. Le musiche dello spettacolo sono della tradizione contadina lucana e sono eseguite da Pasquale Laino, Sara Modigliani, Sonia Maurer e Antonella Iallorenzi. Produzione Centro mediterraneo delle arti.
Di cosa parla
Nicola, figlio di un contadino del Metapontino (MT) che, per “campare”, ha fatto di tutto. Ha lavorato come addetto alle pulizie nel deposito nucleare della Trisaia di Rotondella (MT) dove negli anni ’60 arrivarono 84 barre di uranio radioattivo provenienti dagli USA delle quali, 64 sono ancora conservate nel deposito lucano, altre riprocessate, altre ancora sono conservate nel deposito nucleare della Casaccia, a 25 chilometri a nord-est di Roma, dove è ancora in funzione un reattore nucleare, il Triga, che entro il 2008 dovrà sperimentare la “trasmutazione dei rifiuti radioattivi”, vale a dire dovrà tentare di bruciare il materiale radioattivo. Sperimentazioni che andrebbero fatte, per motivi precauzionali, lontano da centri abitati e corsi d’acqua. Nicola, avendo scoperto illeciti da parte dell’Enea è stato licenziato. Successivamente è partito volontario per la Bosnia dove, senza saperlo, ha respirato polvere di proiettile all’uranio e si è ammalato. Tornato in Italia ha fatto domanda alle Poste Italiane ed è stato assunto come postino a Saluggia (VC). La piccola casa che ha preso in affitto è sulla Dora Baltea e la finestra si affaccia proprio sul deposito nucleare del luogo. A novembre del 2003 decide di tornare in Lucania per partecipare alla protesta contro il decreto 314 emanato dal Governo, secondo il quale a Scanzano Jonico, paese dove è nato e dove suo padre ha un’azienda agricola, dovrà nascere il deposito unico di scorie nucleari italiane. Nicola si troverà al fianco della sua famiglia ad organizzare la protesta contro il decreto 314 e comincerà ad informare la popolazione sul pericolo del deposito nucleare della Trisaia di Rotondella dove ha lavorato anni prima e nel contempo denuncerà la situazione di alto rischio in cui vivono oggi i depositi nucleari di Latina, della Casaccia di Roma, di Caorso ecc...
La stampa
-Gazzetta del Mezzogiorno: “Ulderico Pesce, attore di grande bravura, è riuscito a costruire una splendida e riuscitissima pièce teatrale che è anche un’ opera di divulgazione scientifica.”
E. Bevilacqua
-Il Quotidiano: “Un’atmosfera caldissima e un fiume di applausi hanno accolto la prima teatrale di Storie di Scorie di Pesce.”
E. Gioia
-La Nuova Basilicata: “Trionfante e struggente è la simulazione della marcia del 23 novembre 2003 condotta da un popolo lucano unito, orgoglioso di difendere il proprio territorio.”
M. Petruzzelli
Ulderico Pesce, è stato definito da Rossella Battisti su l’Unità come “un narratore di un’Italia dimenticata. Del fare teatro passando per l’archivio, la memoria e poi agitando il tutto per un perfetto cocktail da scena. Teatro con senso e con anima che non finisce con la sigla “the end”, ma continua a lavorarti dentro e, magari, si aspetta che possa agire nella realtà.”
Presentazione
“Storie di Scorie” vuole ricostruire prevalentemente l’avvento dell’industria nucleare italiana, il pericolo che ancora oggi rappresenta e il funzionamento tecnico di una centrale atomica. Il testo racconta la storia del quarantenne Nicola, attraverso le peripezie della sua vita scopriremo gravi incidenti avvenuti nel settore nucleare italiano, indagini della magistratura e illeciti di cui non si è mai parlato. Lo spettacolo di Pesce capita in un momento storico in cui il governo italiano sta dando chiari segnali di apertura al nucleare ed è di pochi giorni la notizia dell’acquisto da parte dell’Enel di sei centrali nucleari in Slovacchia. In Storie di Scorie, il pericolo nucleare italiano: Scanzano, Saluggia, Casaccia di Roma, Latina, Rotondella, Ulderico Pesce, partendo dalla lotta del popolo lucano contro il decreto 314 con cui il governo voleva costruire a Scanzano Jonico il deposito unico di scorie nucleari italiane, racconta la situazione di pericolosità in cui versano oggi alcuni depositi nucleari italiani.
LA CASACCIA DI ROMA
L’attore-autore, con il suo stile disincantato e ironico, si sofferma sul deposito nucleare situato a 25 chilometri da Roma, (la Casaccia), località Osteria Nuova, che risulta essere il deposito con il più consistente quantitativo di rifiuti nucleari esistente in Italia: 6.270 metri cubi. Nello stesso Centro, per motivi di studio, è ancora in funzione un reattore nucleare, il Triga, che entro il 2008 dovrà sperimentare la “trasmutazione dei rifiuti radioattivi”, vale a dire dovrà tentare di bruciare il materiale radioattivo. Sperimentazioni che andrebbero fatte, per motivi precauzionali, lontano da centri abitati e corsi d’acqua. Nello stesso tempo il deposito della Casaccia scarica i suoi rifiuti liquidi nel torrente Arone che scorre in un'area densamente agricola, con una falda vicina alla superficie, percorsa da acquedotti antichi e moderni (Peschiera e Bracciano) che assicurano l'approvvigionamento a Roma. Il direttore dell'APAT Roberto Mezzanotte ha affermato: "gli scarichi vengono diluiti nell’acqua del torrente e causano una lieve contaminazione del corso d'acqua". Ma va detto che spesso nel torrente Arone scorre un filo d'acqua che non basta a diluire i rifiuti.
URANIO A ROMA
Nello spettacolo si parla ancora di Roma, dove la procura sta indagando su dieci barre di uranio radioattivo partite dalla California per lo Zaire ma poi dirottate in un quartiere della capitale dove sono state nascoste. Una delle dieci fu ritrovata a Roma nel 1998, e furono arrestate una decina di persone tra mafiosi catanesi e componenti della banda della Magliana. Nel 2001 il Tribunale di Catania ha condannato a pene miti questi criminali perchè il traffico di materiale radioattivo è considerato reato minore. Secondo gli inquirenti tali persone sono ancora in possesso delle nove barre rimanenti sottratte allo Zaire e si sospetta che siano nascoste ancora a Roma. Basterebbe comprimere una di queste barre di uranio in un materiale esplodente come una bombola a gas per far diventare radioattivo tutto il centro storico di Roma.
IL DEPOSITO DI SALUGGIA (VC) E QUELLO DI ROTONDELLA (MT)
Ulderico Pesce nello spettacolo racconta il pericolo relativo al deposito nucleare di Saluggia (VC) dove, a pochi metri dalla Dora Baltea, sono “conservate” 53 barre di uranio radioattive e circa 20 tonnellate di rifiuti liquidi ad alta radioattività, e la tragica situazione in cui versa il deposito situato nella zona Trisaia di Rotondella (MT), dove, oltre a 64 barre di uranio, ci sono 3 tonnellate di rifiuti liquidi. Lo stato italiano, già dal lontano 1975, vista la difficoltà di tenere sotto controllo rifiuti allo stato liquido che possono facilmente evaporare o cadere a terra infiltrandosi nel suolo, diede ordine di solidificare ogni liquido radioattivo presente sul territorio nazionale ma i fatti dimostrano che quell’appello è rimasto lettera morta. In più la magistratura ha dimostrato che in entrambi i depositi nucleari sopracitati i rifiuti liquidi sono conservati in cisterne “scadute” da venti anni, pertanto il loro livello di sicurezza è finito, tanto che, nel deposito di Rotondella, il 14 aprile del 1994, una delle due cisterne si è bucata e il liquido radioattivo è fuoriuscito depositandosi nella sottostante cella in calcestruzzo. Il medesimo deposito è stato il centro di un’altra indagine della magistratura che ha portato al sequestro di una tubatura interrata a circa un metro di profondità, lunga 4 chilometri, che parte dal deposito, attraversa molte aziende agricole e finisce nel mar Jonio dove scarica rifiuti liquidi di lavorazione. Il sequestro avvenne perché a marzo del 1993 la tubatura in questione scaricò nel mare liquido radioattivo. La magistratura ordinò di disseppellirla e che venisse rimossa dal mare perché contaminata. Invece quel tubo è ancora lì. (Sul sito internet: www.uldericopesce.com si raccolgono adesioni per togliere dal mare il tubo contaminato e per mettere in sicurezza le cisterne “scadute”). Il lavoro teatrale ricostruisce inoltre varie indagini giudiziarie e denuncia metodi di lavoro spesso improvvisati da parte dell’Enea, che fino ad agosto 2003 ha gestito i depositi nucleari presenti in Italia, successivamente gestiti dalla Sogin.
TRAFFICO DI PLUTONIO
Tra le indagini giudiziarie narrate da Pesce spicca quella, ancora oggi portata avanti dalla magistratura di Potenza, relativa ad un presunto traffico di plutonio (utile per fabbricare bombe atomiche), prodotto in Italia addirittura dopo il referendum del 1987 con il quale gli italiani dissero no al nucleare.
Nello spettacolo si parla inoltre di un presunto traffico di materiale nucleare tra l’Italia e l’Iraq avvenuto tra il 1975 e il 1978. A seguito della crisi petrolifera degli anni ’70 infatti, il governo Italiano, sottoscrisse un accordo con il governo guidato dal dittatore Saddam Hussein, che permetteva all’Italia di importare dall’Iraq petrolio a costo ridotto in cambio della fornitura di materiale nucleare. A seguito di detto accordo nel Centro Enea della Trisaia di Rotondella arrivarono circa trenta ingegneri nucleari iracheni.
Visite fuori orario di Roberto Russo
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Visite fuori orario è stato Segnalato in vari premi: nel ’97 al “Premio Flaiano”, nello stesso anno al “Premio Maschera d’argento- Rosso di San Secondo); sempre nel ’97 è stato Finalista del Fondi La Pastora . Nel ’99 è risultato Vincitore della Selezione dell’OUTIS, Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, e proposto nella forma di mise en espace al Teatro Franco Parenti di Milano per la regia di Claudio Beccari.
Di cosa parla
Lofino è un maturo impiegato statale vissuto per 30 anni fra carte, pratiche e scartoffie. Ha fatto del suo archivio il proprio mondo e riesce addirittura, da ciò che vi è scritto, ad immaginare ciò che vi è dietro....drammi, commedie, esseri umani. Un pomeriggio riceve in ufficio la visita di una giovane commercialista di un famoso studio della città. Per una serie di avvenimenti fortuiti si crea fra i due un gioco crudele e pericoloso che li porterà a spogliarsi dei propri ruoli per mostrarsi per ciò che sono: due perdenti disperati e soli.
Presentazione dell'autore
Un ufficio pubblico, uno dei tanti. Uno di quelli, nei quali ci si reca malvolentieri per necessità, e, dai quali, non si vede l’ora di partire. Un ufficio composto da mura grigie, o da pannelli scoloriti e da linoleum dalla tinta incerta. Eppure in questi uffici vivono persone, e non per qualche giorno o per qualche mese. In questi uffici passa la vita che, ogni giorno, per tutti gli anni, si presenta sempre uguale a se stessa. La vita in ufficio è spesso presentata in maniera comica o grottesca (le beghe fra colleghi, i pettegolezzi, i tic), ma la forzata convivenza, il dover sopravvivere in uno spazio sempre identico che, a differenza di casa propria, non ci rappresenta; l’interscambiabilità dell’elemento umano e, nello stesso tempo, la ripetitività e l’immortalità delle cose, costituiscono il dramma sul quale si dipana “Visite fuori Orario”. Chi scrive ha una conoscenza diretta dell’ambiente del dramma. Spesso, in questi uffici, capita di scorgere suppellettili abbandonate (sedie, elementi di mobili, macchine da scrivere). Questi oggetti, dei quali si ignora, ormai, l’origine e lo stesso uso, restano per decenni sullo stesso mobile e rappresentano, nella loro immobilità, fatta di polvere e ragnatele, la vera metafora della vita eterna. Trascorrono gli anni, gli impiegati si avvicendano, ognuno si illude di ricreare un minimo di ambiente personalizzato (una pianta, un quadretto…), e poi con la pensione, o con un semplice cambio di stanza, tutto l’elemento umano precedente è spazzato via. La sola cosa che resta, costante, sono queste suppellettili che nessuno ha rimosso, testimoni muti di altri tempi, dimenticati, e di altra umanità della quale nessuno ricorda neppure il nome. L’uomo che ha per orizzonte sempre lo stesso orizzonte, la stessa veduta, dalla stessa finestra; che varca sempre la stessa soglia, che fa gli stessi gesti, per anni, per sempre. E’ il rapporto fra l’uomo e la stanza, suo nido, sua tana. Ognuno reca con sé le proprie speranze e le proprie ambizioni, e, inizialmente, pare che la stanza faccia fatica a contenerle tutte. Ma lentamente, anche le speranze, si conformano all’ambiente chiuso, si fanno restringere, incubare, soffocare, fino a spegnersi. In questo ambiente vive Lofino, il protagonista del dramma. L’uomo è un archivista di un ufficio tributario. Conosce il suo lavoro, le sue regole, e conosce solo questo. Si è adeguato alla sua stanza fino a farne la sua tana. La sua vita è quella. La vita degli altri gli viene filtrata dalle carte, fra le quali, quotidianamente, è immerso. E’ come se fosse in parcheggio da 35 anni ed è tale, ormai, l’abitudine a quelle quattro mura, e il distacco dall’esterno, che il parcheggio è divenuto residenza perpetua. Lofino si è abituato a ragionare per quelle e in quelle mura. Ma un giorno, durante un rientro pomeridiano, riceve la visita , per motivi di lavoro, di una brillante praticante di uno studio legale: Emma Goscè. Lofino passerà dal solito atteggiamento impiegatizio all’apparire di una donna (galante, un po’ ammiccante e, nello stesso tempo, arrogante, tale da dimostrare la sicurezza da “uomo”) ad un inaspettato spogliarsi delle solite vesti. L’uomo e la donna, ognuno per strade e con modalità diverse, hanno la consapevolezza della propria sconfitta e soprattutto l’uomo, sotto quella polvere di anni e di noia, cela, in sé, una personalità repressa e aggressiva, l’anima malata e disperata di un essere che ha visto la propria vita scorrere e avviarsi alla fine, come uno spettatore assiste al film nel quale non è coinvolto. Per qualche istante, però, Lofino avrà il coraggio di mostrare quest’anima violenta e imputridita, ma viva.
Roberto Russo
L'attesa di Pietro Dattola
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L'attesa ha ricevuto nel luglio 2004 il premio Oddone Cappellino con la seguente motivazione:
La Commissione Giudicatrice del Premio Oddone Cappellino – composta da Renato Zanetto, Maresa Castelli Venturini (Assessore alla Cultura del Comune di San Raffaele Cimena), Stefania Bertola, Giorgio Sebastiano Brizio, Wanda Capello, Ave Fontana, Franco Prono, Aldo Salassa (anche in rappresentanza di un gruppo di lettura composto da allievi del Liceo Scientifico Tecnologico “Amedeo Avogadro” di Torino) ha deliberato di attribuire il Premio Oddone Cappellino 2004 a: Pietro Dattola, ventiseienne catanese che studia a Roma, lavora nel campo dei videogames e frequenta un laboratorio teatrale universitario. Il suo testo L’attesa è un “dramma metafisico” dotato di una struttura complessa ed efficace: alcuni personaggi si trovano in un aldilà costituito da una serie di stanze che vengono da loro attraversate senza soluzione di continuità in attesa di un Giudizio che forse non giungerà mai. L’autore dimostra abilità nel rendere l’idea di un tempo non lineare, in cui si mescolano passato e presente, residui di realtà terrena, perplessità per l’attesa presente, preoccupazione e curiosità nei confronti di un futuro misterioso.
Di cosa parla
Sei personaggi si ritrovano in una sala d'attesa. La sala d'attesa, quella dopo la quale non ne verranno altre. In attesa del proprio giudizio, e in una sorta di composto bivacco, le sei anime hanno l'occasione di riflettere su questioni più o meno concrete, di interagire, di instaurare - là dove già non ce ne siano state in vita - significative relazioni tra di loro, vivendo situazioni dai toni più vari - vari come varia è la vita, in cui sacro e profano spesso non solo si mescolano, ma sono strettamente compenetrati, in cui il tragico e il comico si susseguono quasi senza darsi il tempo di un composto avvicendamento. Quella vita per la quale, prima o poi, forse, si verrà un giorno giudicati.
Presentazione dell'autore
Cosa accada dopo la morte è certamente il più straordinario mistero con cui l’uomo deve confrontarsi; un mistero curioso perché, a differenza di altri, è destinato a essere sciolto, prima o poi, da ciascuno di noi – e in prima persona. Il tema è senza dubbio affascinante (si sia credenti o meno) e offre infinite possibilità drammaturgiche. Una di queste era combinarlo con un altro tema, altrettanto carico di fascino e di potenzialità: quello dell’attesa. Attesa di cosa? Di un giudizio – il giudizio. Quello complessivo, cui non sfugge nulla. Quello crudele, perché per definizione giusto e quindi inappellabile. Quello di una vita.
I personaggi – quasi tutti privi di nome (e a che servono i nomi, a quel punto?) – si trovano ad attendere il proprio giudizio (sulle modalità del quale si rincorrono diverse voci, si fanno congetture, si ipotizzano scenari) e ciascuno lo fa a modo suo. Ciascuno, inevitabilmente, ha ragione di essere ansioso – non pare vi siano papabili santi tra di loro. Ciascuno lo dà più o meno a vedere. Ciascuno, quando l’attesa termina e sta per varcare la soglia della Porta del Giudizio, si prepara ad affrontare il Giudice a modo suo. Sapere di dover essere giudicati (e sapere che potrebbero derivarne la felicità o la sofferenza eterne) è di per sé terribile, ma non meno terribile è l’attesa cui i nostri vengono costretti – anch’essa soggetta a diverse interpretazioni. Dopotutto, l’onniscienza non dovrebbe essere naturalmente accompagnata da una istantanea capacità di giudizio? Invece l’attesa si prolunga – o, quantomeno, si rivela molto più lunga del previsto. In una sorta di composto bivacco, le sei anime hanno l’occasione di riflettere su questioni più o meno concrete, di interagire, di instaurare - là dove già non ce ne siano state in vita – significative relazioni tra di loro, vivendo situazioni dai toni più vari – vari come varia è la vita, in cui sacro e profano spesso non solo si mescolano, ma sono strettamente compenetrati, in cui il tragico e il comico si susseguono quasi senza darsi il tempo di un composto avvicendamento. Quella vita per la quale, prima o poi, forse, si verrà un giorno giudicati.
Nota: si cercano compagnie interessate alla rappresentazione del testo nell’ambito della XI edizione del Festival delle Colline Torinesi (giugno-luglio 2005).
Per informazioni contattare l'autore.
Una nota critica
di Sergio De Sandro Salvati
Il testo è ben architettato sia nella costruzione drammatica che nell’impostazione scenografica del “luogo” dove tutto si svolge: la sala d’attesa della Sede del Giudizio. Accomunati nella medesima situazione le persone, o meglio le anime, incontrandosi e familiarizzando (per quanto sia possibile tra sconosciuti) mettono a nudo la propria esistenza terrena raccontandosi i passaggi più conflittuali e critici, confrontandosi anche su come avrebbero reagito caso per caso a seconda delle loro diverse qualità caratteriali e origini sociali. Nella suggestiva ipotesi teatrale di Pietro Dattola il confine tra realismo e surrealtà è molto labile; spesso gli stessi personaggi vivono momenti di confusione domandandosi se il loro ritrovarsi e ragionare sia concreto o astratto, se abbia cognizione di causa o semplicemente sia il vaniloquio di soggetti provati dalla noia o dallo stress dell’attesa prima di essere giudicati come è accaduto in vita e come avviene questa volta forse definitivamente. Ma di questo non si ha certezza assoluta. E proprio la mancanza di certezze provoca ai nostri soggetti/personaggi/spiriti l’opportunità di spingere i loro dialoghi sull’ironia, la beffa amara, la derisione: un cocktail servito con uno spruzzo di fatale sentimentalismo e disincantata sincerità. Sul piano teatrale è questo l’aspetto vincente del testo che non è privo di sano moralismo, ma solo quanto basta.
Aspettando il Giudizio
di Gaspare Dori
Dio è morto? Oppure non dobbiamo fare altro che attenderlo, che continuare nelle nostre esistenze più o meno felici e abbandonarci un giorno alla sua giustizia infinita? Il teatro, che nell'antichità era sovente il luogo della rappresentazione del conflitto tra gli dei e gli umani, o della redenzione dei peccatori, per diversi secoli (quantomeno in Occidente) si è trasformato in una sorta di laboratorio di analisi riservato all'uomo. D'altronde, perché cercare altrove, se l'uomo ha in sé (e nelle cose che tocca, vede, consuma, costruisce) tutto ciò che di conosciuto e conoscibile esiste? Poi... poi sono arrivati i grandi totalitarismi, due guerre mondiali, Auschwitz, l'incubo della distruzione totale, ed il teatro è tornato ad essere il luogo nel quale interrogarsi sulla divinità. Sulla sua presenza, sulla sua forma, su quello che fa, su come ci guarda, su come ci giudica. Ma il teatro non può supplire alla fede, non può dunque rappresentare la divinità: lo spazio scenico, rappresentazione sublimata del mondo terreno, si trasforma allora in un non-luogo, un'anticamera, nella quale l'uomo deve accontentarsi di immaginare, di prefigurarsi e, soprattutto, di attendere. Il testo di Dattola si inserisce nel novero di quelle pièces che trattano dell'aldilà rappresentandone solo la parte temporalmente più vicina alla morte, quel momento nel quale si attende qualcosa. Così "A porte chiuse" di Sartre, così l'"Hotel dei Due Mondi" di Schmitt ed in parte il mio "Il lungo cammino degli elefanti". In tutti questi casi quello che è morto davvero non è Dio, ma il dramma borghese, naturalista, luogo simbolico del quotidiano. "L'inferno siamo noi" fa dire Sartre ad uno dei suoi personaggi, siamo noi ad aver reso impossibile il vivere, ad averlo sovraccaricato di sofferenze e di vincoli, di dolori e di violenze, facendo sì che la barbarie diventi un tratto normale della nostra esistenza. A differenza degli altri testi che ho citato, l'opera di Dattola non sembra porsi domande sull'esistenza di Dio nell'oltremorte. I personaggi de "L'attesa" sono tutti certi di incontrarlo, è solo una questione di tempo. Aspettano. Come Vladimiro ed Estragone, convinti dell'arrivo del loro Godot. E sono tutti persuasi che saranno giudicati. Ci si interroga solo sul come: sulle modalità, sulle domande che farà, sulla durata dell'azione. L'uomo non ha dunque scampo. "Cinquant'anni per un'eternità!" dice uno dei personaggi, presagendo quasi un esito drammatico. Ma forse l'uomo ha in sé ciò che serve per potersi giudicare: "Certi dicono che non è Lui a giudicare... che Lui mostra soltanto, e a giudicarti sei tu stesso...". L'onnipotenza dell'uomo (che crede di aver creato la giustizia terrena) e quella di Dio sembrano allora ricongiungersi... A parte la tematica, la pièce di Dattola è ben strutturata, con una suddivisione dello spazio scenico ambiziosa (le sale colorate rimandano alla memoria quelle della "Maschera della Morte Rossa" di Poe) ed una lingua estremamente ben curata. Tuttavia, per un curioso paradosso, proprio la lingua rischia di essere il punto debole del testo. Non è una lingua masticata e digerita, pronta per essere detta e sentita in scena: resta una lingua letteraria, a volte asettica, da laboratorio. Così i passaggi migliori sono quelli nei quali i personaggi riflettono meno e si lasciano andare a sfoghi inconsulti (come quello della Moglie): è lì che l'autore lascia il passo al personaggio, si mette in disparte e lo ascolta parlare. La lingua allora diventa libera, pura espressione dell'anima. Analogo discorso vale per le didascalie e le indicazioni sceniche, che sono assai frequenti e minuziose: se ciò può rendere il testo immediatamente "visibile" per il lettore, rischia tuttavia di trasformarlo in una gabbia per il regista che intenda seguire le indicazioni in maniera pedissequa.
Non si può che auspicare che Dattola, giovane autore dalle indubbie doti espressive, dia nelle prossime opere più libertà ai suoi personaggi e lasci maggiore spazio all'immaginazione dei fruitori dei suoi testi e dei futuri interpreti. Cercare la realtà piuttosto che crearla. Ma per uno scrittore che lavora ai suoi testi con tale cura e attenzione, c'è da credere che non sarà un esercizio difficile.