Il dramma del mese
Rosanero di Roberto Cavosi
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Rosanero premio I.D.I 1993 e Biglietto d’oro Agis come novità italiana 1994\1995, ha debuttato al Teatro Comunale di Benevento, nell'ambito del Festival Benevento Città Spettacolo, il 14 settembre 1994. E.A.O. di Alessandro Giglio, regia di Antonio Calenda. Scene di Bruno Buonincontri. Costumi di Michela Pandolfi. Musiche di Germano Mazzocchetti. Interpreti: Alvia Reale, Antonella Schirò, Cetty Arancio, Daniela Giovanetti, Anna Lezzi. Un nuovo allestimento nella stagione 1999-2000 ha debuttato a Rieti, al Teatro Vespasiano, nel gennaio 1999. Compagnia Teatro Moderno di Claudio Padovani. Regia Piero Maccarinelli. Scene di Alberto Andreis. Costumi Sabrina Chiocchio. Musiche Antonio di Pofi. Interpreti: Ottavia Piccolo, Milvia Marigliano, Renata Palminiello, Micol Pambieri, Silvia Salvatori.
Di cosa parla
La veglia funebre a Giuliana Miceli, morta a ventidue anni di anoressia, è spunto per le sorelle Beatrice, Carlotta, Vannina e per la cugina Suor Rossana di approfondito e lacerante confronto. Giuliana, quasi novella Antigone, usava la malattia per difendersi dalla sua famiglia fortemente invischiata nel tessuto mafioso palermitano. Dopo tre anni, le sorelle, riunite davanti alla salma, si ritrovano a dipingere il ritratto della "ribelle" tra un gloria ed un'Ave Maria, senza risparmiare parole dure e crudeli : il ricordo di Giuliana si fa via via più vivo fino ad arrivare ad una vera a propria materializzazione. E' Vannina che racconta l'ultimo incontro con la sorella, un incontro segreto e disperato seguito alla morte del fratellino Emanuele, baby spacciatore rimasto vittima di un regolamento di conti. Che cosa, in definitiva, ci vuole raccontare Rosanero? Certamente la forza e la tenerezza di un legame così intimo, ma così frustrate dalla spietata concretezza della vita; certamente la cruda girandola di questi destini che fanno la miseria della nostra esistenza. Ma anche, e soprattutto, il profondo e disperato desiderio di giustizia e di libertà che è in ognuno di noi con la dirompente gentilezza di chi è nel giusto, in una pagina del nostro tempo, nel piccolo appello di chi ha saputo, pur se lasciandosi morire, ribellarsi alla violenza.
La stampa:
“Il pregio di questo testo è nell’aver trovato gli accenti aspri della tragedia antica sotto l’intramatura di un fatto di cronaca del nostro tempo…”
Il Giorno. Ugo Ronfani (16 sett. 1994)
“Né Sascia e neppure Fava avevano descritto con tanti risvolti psicologici una storia di morte e di mafia così come appare in Rosanero”
Giornale di Sicilia. Gigi Giacobbe (20 marzo 1995)
“Il dramma (…) si impone per una sua crudezza ascetica, per un suo gioco al massacro in famiglia, ed è una di quelle opere che non ambiscono a filoni o a mode, coniando semmai una drammaturgia ammonitrice, uno spaccato di metafore a distanza d’un palmo dalla nostra realtà, racchiudibile però in una controversia intima e fosca, tale che dalla dettagliata osservazione di un nucleo marcito si giunge a trasfigurare l’angoscia di una classe sociale, di un’epoca.”
La Repubblica. Rodolfo Di Giammarco (20 sett. 1994).
“(…) La parola “mafia” viene peraltro usata pochissime volte. E il colore, il folclore connessi, sono sostanzialmente evitati. Così la vicenda, circostanziata e credibile nel contesto specifico, potrebbe pur avere luogo in altre terre, senza veder diminuiti la sua carica critica, il suo respiro morale.”
L’Unità. Aggeo Savioli. (19 sett.1994)
“Rosa e nero, trepidazione e verità luttuosa, si mescolano nel bel testo di Roberto Cavosi, quasi l’unico autore di oggi ad avvincerci con storie appassionanti che pure nascono e crescono su elementi personaggi e situazioni della nostra storia recente.”
Amica. Gianfranco Capitta (19 febb.1999)
“Ecco un bel testo contemporaneo. (…) Una vicenda ribollente di domande inquietanti, tutta mossa intorno a un pozzo nero di dolore e letta esclusivamente al femminile.”
Avvenire. Domenico Rigotti (15 aprile 1999)
“Oggi che c’è tanta voglia di voltare pagina, che nessuno sembra più voler sapere chi c’era dietro le bombe del 93’, un testo così mi sembra importante. Perché pone domande, mette in mostra un sistema di cultura la cui sopravvivenza è la più forte garanzia perché la mafia continui a prosperare”
Corriere della Sera. Da un’intervista di Ranieri Polesine a Ilda Boccassini riguardo a Rosanero. (12 aprile 1999)
Dalle note di regia di Piero Maccarinelli
Il testo di Cavosi analizza la complessità dei rapporti di un gruppo di donne di una famiglia di mafia. Testo affascinante, soprattutto per la risposta al problema della responsabilità individuate in rapporto alla colpa collettiva. "Siamo una manica di complici piccoli e meschini", risponde ad un certo punto la cugina suora a Vannina Miceli, la capofamiglia, e in questa affermazione sta gran parte del senso ultimo del testo di Cavosi, un testo importante, perchè rimette in discussione il concetto di colpa individuale rispetto a scelte definitive, estreme, come l'assassinio di un bambino, il più piccolo dei Miceli. Fra l'esecutore ed il mandante, fra chi compie il gesto e chi per opportunismo sceglie il silenzio, la complicità occulta (fingere di non sapere per non perdere i propri privilegi), c'è davvero tanta differenza? Qui si parla di mafia, di un sistema di potere totalitario e gerarchico, ma si potrebbe parlare di qualsiasi totalitarismo. Mi ricordo di un bel libro di Allen, "Come si diventa nazisti", in cui l'autore parla di un piccolo paese della Baviera negli anni Trenta e del primo sputo lanciato fra l'indifferenza dei passanti a un diverso, a un oppositore... Questa indifferenza, questa apatia non sono forse il primo segno di una complicità e di un asservimento a un sistema di potere? E la fuga di Giuliana nell'anoressia o l'ignavia della cugina suora non sono altre forme di complicità occulta? Nessuno è innocente, l'innocenza si paga a caro prezzo e non c'è, tra le donne Miceli, chi sia disposta a pagare questo prezzo. (...) Se il teatro ogni tanto ha una funzione civile, politica (nel senso più alto del termine), credo che questa volta possiamo rivendicare di aver fatto un pur piccolo passo oltre il palcoscenico, in mezzo alla società.
Nota dell'autore:
"Rosanero" è nato dalla mia volontà di raccontare il mondo femminile intorno alla vicenda di Antigone. La distanza culturale con l'antica Grecia mi causava però non pochi problemi. Quindi, piuttosto che creare un prodotto posticcio, mi sono deciso a compiere un balzo verso i giorni nostri. L' uccisione di Polinice ed il governo tirannico di Creonte mi hanno istintivamente portato alla violenza del mondo mafioso. L' ambito sociale ora era pronto, si trattava a questo punto di dipanare una storia, all'interno della quale fossero ancora presenti Antigone, Creonte, Polinice e via discorrendo, ma soprattutto quel mondo femminile al quale mi ero inizialmente ispirato. Ignorando scrupolosamente la cronaca mi sono rituffato nel mito e in un'analisi psicologica di Antigone quasi fosse un personaggio moderno. Dalle sue caratteristiche ho rilevato "la paziente" sofferente di anoressia: niente di più contemporaneo. Ora avevo un'Antigone, ribattezzata Giuliana, che mi permetteva di agire pienamente all'interno del mio mondo. Ma la storia? La storia a questo punto è venuta da se con la sola aggiunta di un personaggio completamente avulso all'antico mito: suor Rossana. Era I'ultimo anello che mi mancava, I'ultimo ponte tra la cultura greca e la nostra: di sicura matrice cristiana. Il testo è una sentita condanna alla società mafiosa, alla sua assurda, "tragica", volontà di morte ed alla sua ormai sclerotizzata incapacità a saper generare un qualsiasi elemento positivo. "Una madre senza ventre" è appunto il simbolo che ho scelto per descriverla. Simbolo che viene incarnato nel testo dalla sorella di Giuliana, Vannina, novella Creonte, forte e straziato ritratto di una donna che ha negato se stessa per aderire al dovere di "stato". Cosa, quindi, racconto con "Rosanero"? Sicuramente la tenerezza dell'intimo e lacerante legame tra le sorelle Giuliana e Vannina, opposte nei loro ruoli d'Antigone e Creonte. Ma anche, e forse soprattutto, il profondo e vivificatore disperato desiderio di giustizia e di libertà che è insito in ognuno di noi. A questo desiderio Giuliana si aggrappa con tutte le sue forze, fino allo stremo, porgendolo a noi con la dirompente energia di chi è nel giusto. Una pagina quindi del nostro tempo, senza tempo, nel piccolo appello di chi ha saputo ribellarsi alla violenza e di chi ha saputo come Vannina, e qui è la catarsi, pagarne amaramente, lo scotto.
Roberto Cavosi
Maleeducati di Silvio Stellato
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Maleeducati è stato rappresentato il 29 giugno 2003 nella Rassegna Radio Ciroma a Cosenza; dall'8 al 10 gennaio 2004 nella stagione Spazio Teatro di Reggio Calabria; il 26 febbraio 2004 al Teatro dell'Acquario di Cosenza nella Rassegna IndipendentementeTeatro; al Teatro RossoSimona Università della Calabria il 4 marzo 2004. Debutta al Teatro dell'Orologio di Roma il 29 novembre fino al 5 Dicembre 2004, e sarà riproposto alla città di Cosenza il 24 Novembre 2004 all'Imaga Teatro di Serraspiga.
Produzione: Falegnameria dello Spettacolo
Con Silvio Stellato, Marco Silani, Giuseppe S. Grosso Ciponte. Regia di Giulia Secreti. Video di Giuseppe S. Grosso Ciponte
Di cosa parla
Maleeducati è la storia di due detenuti. Due giovani: di famiglia borghese e dal parlare forbito uno, dei bassifondi di periferia e della mancata istruzione l'altro. Entrambi vivono e crescono in deliranti situazioni familiari accumulando le stesse esperienze di vita. Le marachelle, i piccoli furti ed il riformatorio prima, la vera criminalità e la detenzione nei penitenziari dopo. I due, costretti in una cella e sotto il controllo del tecnico-secondino, muovono e ricordano gli eventi precedenti la carcerazione; eventi che si materializzano attraverso il video proiettato, complemento e completamento della messa in scena. La drammaturgia, di Silvio Stellato, è liberamente ispirata ai racconti di Edward Bunker, autore di romanzi hard-boiler di grande successo negli Stati Uniti e in Europa, dove gli ambienti criminali dei sobborghi di Los Angeles, descritti da Bunker, diventano nel video i luoghi della provincia del sud, mentre lo slang dei neri e dei chicanos si trasforma nel dialetto cosentino, palermitano e napoletano dei quartieri popolari e nell'idioma inconfondibile delle carceri e dei detenuti. Il risultato sono sessanta minuti in cui affiora un mondo visto dal di dentro, un mondo che pochi conoscono e che spesso si affronta attraverso il filtro pregiudiziale dei media. Attraverso lo spettacolo, Maleeducati narra il fallimento dell'istituzione carceraria e il tentativo di attuare uno dei suoi compiti primari: quello della rieducazione del condannato.
Leggi
La stampa:
... Piazzetta Toscano si apre ai "maleeducati", luogo chiamato a rappresentare le proposte artistiche nel campo teatrale e cinematografico … la performance dal profilo sperimentale prende spunto dagli scritti di Edward Bunker, sessantanove anni vissuti pericolosamente - dei quali diciotto vissuti in galera per molteplici reati "la mia non è stata una gioventù bruciata perché io non ho mai avuto una gioventù" ... la messa in scena accompagnata da immagini video risulta travolgente … lo spettacolo concede la possibilità di osservare "de visu" ciò che è in scena ... il video diviene uno strumento per entrare all'interno delle vicende ...
Pierpaolo Pastore
Il quotidiano della Calabria
... una scenografia essenziale, nell'aria la solitudine dei ricordi che, facendo molto rumore nell'anima, appaiono come flashback sullo schermo, una webcam in presa diretta a sottolineare espressioni e mimiche: la contaminazione tra cinema e palcoscenico ... tre giorni positivi [per maleeducati], in cui è emerso interesse per la nuova drammaturgia ... non una critica al sistema carcerario, in cui è implicito che si paghi per aver commesso errori, ma una riflessione sulle condizioni di chi vive dietro le sbarre, una valutazione che, partendo dall'articolo 27 della nostra Costituzione, prevede che la prigione sia l'inizio di un percorso rieducativo ...
g.c.
Il quotidiano della Calabria
... cos'è più dannoso e umiliante, il controllo o i sedativi? Ce lo chiediamo mentre osserviamo il carceriere di "maleeducati" ... armato di una webcam, glaciale e suggestiva nei toni celesti restituiti fuori sincrono ... la trovata di mescolare video e teatro è scelta stilistica e tributo all'opera e alla vita del criminale e scrittore statunitense Edward Bunker ... l'occhio orwelliano ... il decadimento dei personaggi ... la decostruzione del palco ... indovinato l'assortimento degli attori e autori di una bella performance ...
Eugenio Furia
Il quotidiano della Calabria
Dal video per lo spettacolo, Giuseppe S. Grosso Ciponte ha realizzato una riduzione di 2 min. per la circuitazione nei festival dedicati ai cortometraggi.
Il video è stato selezionato al Cinecittà Internet Film Festival 2003, ed è stata tra le opere scelte da
"ULTRACORTI FILM FESTIVAL" per far parte del palinsesto Wind per telefonia mobile.
Per altre informazioni sullo spettacolo e per vedere il video:
http://www.promaction.com/maleeducati/
L'alba del terzo millennio di Pietro De Silva
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L'alba del terzo millennio è stato rappresentato la prima volta nel 1994 al Teatro Argot e successivamente al Teatro dell'Orologio in Roma con la regia dello stesso autore che ha interpretato anche il ruolo del Vinaio, mentre Paolo Fosso ha interpretato il Maestro. La compagnia del teatro Abeliano di Bari rappresenta lo spettacolo da dieci anni con grande successo.
Di cosa parla
Balzac sosteneva:"Nessun uomo viene abbandonato senza ragione." E' un assioma scritto in fondo al cuore di ogni uomo... di qui il furore degli abbandonati...? Immaginate dunque due uomini abbandonati e dimenticati in croce durante una sacra rappresentazione in cima al Monte Soratte. I due disgraziati, un vinaio ed un maestro elementare, vengono issati su due croci nel ruolo dei ladroni, il caso vuole che alla televisione ci sia un'importantissima partita che tiene incollati al video tutti gli altri partecipanti. I due di fronte all'atroce consapevolezza dell'abbandono sono dapprima pervasi da un moto di stupore, ma dopo poco prevale la rabbia e l'incredulità mista ad un senso di panico sempre più incombente. La solitudine li attanaglia e la speranza di essere salvati col passar delle ore si fa sempre più tenue... Nulla accomuna i due individui, sono distanti in tutto. Il maestro di cultura laica, malinconico e attonito di fronte agli eventi, non riesce se non tardivamente a tessere un rapporto con il vinaio, personaggio greve, schietto e ruvido e soprattutto logorroico e un tantinello incosciente. Due mondi contrapposti che in virtù di una forzata convivenza campestre dovranno in qualche modo comunicare ed accostarsi per non cedere alla disperazione. Spettacolo di tessitura tragicomica, parte da un assunto al limite del surreale e si trasforma nel tragico epilogo in una apologo sulla vacuità dell'esistenza. Azzeramento della speranza? Ineluttabilità degli eventi? Questo testo apparentemente non lascia spiragli e prospettive ai due malcapitati. Il proposito dell'autore è di lasciar sedimentare nello spettatore il vissuto dei due individui che in definitiva sotto diverse sfaccettature rappresenta il dolore e le passioni che pervadono tutti noi... nessuno escluso. Quest'involucro di sofferenza e partecipazione emotiva in fondo ci accompagna
per tutta l'esistenza. Ed è nella disperazione e nel tunnel che un minimo spiraglio di luce anche distante si fa salvezza sia per il singolo che per l'umanità intera.
Mari di Tino Caspanello
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Mari ha vinto il Premio speciale della Giuria Bignami Quondamatteo del Riccione Teatro 2003. Ha debuttato a Pagliara il 18 dicembre 2004 ed è stato rappresentato al Teatro Petrella di Longiano nell'ambito del Festival Santarcangelo dei Teatri nel luglio 2004 dalla Compagnia Pubblico Incanto. Con Cinzia Muscolino e Tino Caspanello, costumi Cinzia Muscolino, elaborazione del suono Giovanni Renzo, assistente alla regia Andrea Trimarchi, scene e regia di Tino Caspanello.
Il 19 settembre 2004, al Teatro Arsenale di Milano, lo spettacolo verrà presentato nell'ambito del Festival Tramedautore organizzato da Outis.
Dal verbale della Giuria della XLVII edizione del Premio Riccione per il Teatro
Delizioso duetto musicale in dialetto messinese, dedicato dall’autore a coloro che “amano senza parole”, mentre vede prolungarsi un ripetuto breve addio, sulle rive del mare, tra un marito ansioso di restare solo a pescare e la moglie che continua a rinviare il rientro in cucina, riattaccando il discorso. Anche qui vibra una voce spasmodicamente interessata al linguaggio, che tende la rete invisibile di un sortilegio amoroso a imprigionare coi ritmi della sua partitura il movimento, legando le due figurine struggenti nel notturno marino.
Recensione da "Il giornale del festival"
da www.santarcangelofestival.com
Convince "Mari" della Compagnia Pubblico Incanto
Frammenti di un discorso amoroso in dialetto
di Annalisa Sacchi
L’uomo è di schiena, seduto su una cassetta di legno. Un secchio e una lampada di fianco. Rumore di risacca. L’uomo si volta, trattiene un filo di nylon teso per pescare, piantato nella platea. Il confine tra il pelago e la riva è segnato dalla linea del proscenio. La donna emerge dal buio dello sfondo, è notte e vuole riportare il marito a casa, vuole che ceni con lei. Sono Tino Caspanello e Cinzia Muscolino, della Compagnia Teatrale Pubblico Incanto, in scena fino a stasera al teatro Petrella di Longiano con Mari. Lui è ruvido, vuole rimanere solo. Le parole sono spezzate da lunghi silenzi, che nel testo di Caspanello, vincitore del Premio Riccione della giuria, erano indicate dall’autore in forma di vuoti tra parentesi. Luoghi di sottrazione linguistica, in scena sono apnee che restituiscono l’essenziale di una forma di emarginazione dall’altro. La parola sembra zavorrare i personaggi, il suo punto di caduta è sempre esterno alla comprensione dell’altro, congela ogni slancio. Caspanello dichiara di voler “far passare le cose in cui si crede senza nominarle, perché nell’atto di nominarle vengono meno”. La trama, dunque, è ricamata principalmente sulla filiera prossemica, gesti abortiti per paura o pudore, che sembrano tradurre in scena un’eco sghemba e delicata di certi scambi tra Keaton e la Masina. Il confine del corpo dell’altro è solo lambito, le mani si fermano un attimo prima di incontrarlo. Due esistenze piccole piccole, proiettate sul mistero di un mare notturno che non riescono a vedere, e che per questo diventa un pretesto quando bisogna trovare qualcosa di cui parlare. L’acqua si fa sinapsi capace di mettere in relazione i corpi, quando lui invita la donna a esplorarne la superficie. C’è un gesto di intimità quasi erotica in queste mani che guidano altre mani alla scoperta, e lei che si schermisce ritraendosi imbarazzata. La partitura lirica è scandita dall’ “allora io vagghiu” con cui la moglie fa per accomiatarsi, e dai pretesti che continua a rincorrere pur di rimanere accanto all’uomo, Sherazade afasica le cui storie non interessano più il sultano. Nell’uomo si manifesta più chiara la scissura tra un’esistenza intima, un canto interiore appena sussurrato, e una figura come intagliata nel legno. Il progredire dei rapporti tra i due coincide allora con le reazioni di lui, col suo progressivo stemperare l’insofferenza verso la compagna, giungendo a trattenerla nei momenti finali. Anche la condivisione dello spazio è sofferta, lui rincasa sempre che lei già dorme, dividono il letto come estranei. È lei a incrinare per prima l’artrosi del rapporto, gli confida che, a volte, lo aspetta sveglia, lo ho ascoltato agitarsi nel sonno, persino parlare. E in questo parlare, una volta, invocare distintamente il nome di lei. Quando lui dorme, lei riesce a toccarlo, quando lei non lo vede, lui la ascolta cantare. Devono incontrarsi fuori dal discorso, fuori da una quotidianità meccanica che li fa estranei. Basta una trasgressione, e di nuovo le mani si intrecciano a pelo d’acqua.