Il dramma del mese
Bambino di guerra di Massimo Nicoli
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Bambino di guerra non è mai stato rappresentato ma ha ricevuto alcuni riconoscimenti. Nel 1995 ha ottenuto una segnalazione di merito nell'ambito del premio nazionale "Giacomo Bardesono". Nel 1997 ha superato la selezione italiana per la partecipazione a uno workshop tenutosi in Olanda dal titolo: "Ouch, theatre meets social reality in Europe" promosso dall'Unione Europea e organizzato dall' European network of art organizations for children and young people (EU NET ART). In quell’ambito ad Amsterdam fu presentata anche una scena del lavoro teatrale con la regia di Marco Baliani. Al termine della manifestazione “Segnali”, il testo fu pubblicato su Sipario del maggio 1995.
Una nota critica
di Sergio De Sandro Salvati
Molto intelligente l’idea dell’autore di non collegarsi ad alcun elemento spazio-temporale in modo da rendere la ‘sua’ una storia universale, realistica, con tutti i risvolti emotivi al posto giusto, forse un po’ scontati, ma mai banali. I racconti di guerra fanno parte, ormai, di una certa routine: entrano quotidianamente nelle nostre case attraverso i media con la semplicità disincantata e accattivante degli stereotipi, impossibili da rielaborare perché essi stessi sintesi, simboli, maniera, oggetti da prendere e consumare con interesse sempre più distaccato. Non è difficile riscontrare in questo una sottile insidia per la nostra coscienza: anche se in modo non intenzionale le continue incursioni di immagini e commenti raccapriccianti ci rendono paradossalmente sempre più insensibili ai dolorosi drammi della guerra che tutti i giorni si vivono concretamente nel mondo. Ma qualcosa può invertire questa tendenza: la rappresentazione teatrale; una sorta di scorciatoia per arrivare prima agli ‘obiettivi’ più sensibili dell’uomo. Come operatore teatrale ritengo che “Bambino di guerra” di Massimo Nicoli sia valido proprio per questo motivo; perché ripropone finalmente la magica condizione di poter essere spettatori attivi (non televisivi), offrendo la possibilità di rappresentarsi direttamente nella “verità” del teatro e di esaltare i caratteri più genuini della propria sfera emotiva. Nella sua stesura drammatica e relativa lettura teatrale il testo risulta molto scorrevole, ricco di scambi, attese, sorprese e, anche se apparentemente rigido nella successione e articolazione delle scene, riserva ampi spazi dove la fantasia del regista può liberarsi per favorire, se occorre, occasioni di esaltante spettacolo.
Presentazione di Giuseppe Manfridi
Dal numero 556 di " Sipario" maggio 1995
Testo breve ma articolato e composto con notevole abilità drammaturgica. Durante un ipotetico conflitto che molto ricorda quelli a noi limitrofi e con cui conviviamo, ormai assuefatti da tempo, il piccolo Stefan e sua madre Ruth danno asilo in uno sgabuzzino della loro piccola casa a Mitch, una sorta di partigiano schierato, all’apparenza, dalla parte dei giusti. In realtà, che Mitch, per dirla in modo infantile, sia uno dei buoni o no poco importa. ricordo quello splendido racconto che è il silenzio del mare di Vercors in cui un gerarca nazista, durante l’occupazione tedesca in Francia, stabilisce un rapporto di straordinaria comunicazione con la coppia di padre e figlia costretta ad ospitarlo e che oppone, all’ansia di conoscenza del nemico, un fiero ma permeabilissimo mutismo. Nulla di più alto della passione di quello straniero in pena per una terra non sua ma profondamente venerata. Così Mitch, poeta e mago col dono di un’affabulazione che incanta, diventerà il grande compagno di giochi di Stefan a onta delle angosce di Ruth, creatura vulnerabile e forte, dolcissima nel suo essere scissa tra le preoccupazioni materne e il proprio senso di umanità. Ma vorrei lasciarvi alla lettura di questo testo con l’incantata domanda che nella commedia di Massimo Nicoli il piccolo Stefan rivolge a sua madre: - Mamma, anche gli alberi fanno la guerra? -”.
Presentazione dell'autore
Il testo è nato e si è sviluppato all’interno di un laboratorio di drammaturgia, organizzato nel 1995 dalla Regione Lombardia, nell’ambito della manifestazione “Segnali. Le proposte 95/96 del Teatro Ragazzi Lombardo”. Il laboratorio fu condotto con grande abilità e competenza da Giuseppe Manfridi. La prima sollecitazione fu quella di proporci un tema da cui partire: “Sogni da un campo di battaglia”. Questa frase suscitò in me un’immagine che fu germe e punto di partenza di tutto il lavoro successivo. Immaginai un bambino che stava giocando con una barchetta in una pozzanghera. Il gioco veniva interrotto perché il bambino era attratto dal rumore sempre più incombente di soldati in marcia. Una donna, la mamma del bambino, usciva di casa allarmata, abbrancava il bambino e lo trascinava via. Successivamente i militari passavano e nella loro marcia travolgevano la pozzanghera e la barchetta di carta. Dopo aver pensato questa immagine (più cinematografica che teatrale) cominciai a considerare il motivo e quali significati racchiudeva. Scoprii così che c’era già tutto il senso del lavoro. Un bambino strappato al suo gioco da un adulto spaventato e preoccupato. La barchetta distrutta. Il bambino privato del suo diritto a giocare e costretto a rimanere chiuso in casa. Quello che volevo raccontare era proprio questo: ciò che la guerra provoca nel bambino. Non necessariamente in quei bambini che vengono sempre più tragicamente coinvolti da esplosioni e sparatorie, per i quali ci si strappa le vesti e poi, altrettanto rapidamente, ci si dimentica, ma in tutti i bambini che si trovano a subire condizioni e condizionamenti dovuti alla guerra. La vicenda, che comprende anche uno sviluppo avventuroso, ruota principalmente attorno alla figura di Stefan, il bambino, ed è caratterizzata dalle sue frequenti domande. A rispondere a queste domande sono Ruth la madre, comprensibilmente preoccupata e ansiosa , e Mitch, un misterioso rifugiato nascosto nella casa di Stefan, capace di offrire al bambino nutrimento alla sua fantasia e alla necessità di gioco. L’ultimo personaggio è rappresentato da Ierivna, una donna pettegola e impicciona, forse addirittura un’informatrice che rappresenta una minaccia continua per la piccola famiglia. In quel periodo era in corso il conflitto nella ex Jugoslavia ma il testo non vuole avere una collocazione precisa nello spazio, anche la scelta dei nomi è fatta seguendo questo criterio. Vuole rappresentare idealmente tutti i conflitti e i loro effetti sui bambini. Non credevo che il testo avrebbe continuato a restare di attualità così a lungo.
Massimo Nicoli
I contrattempi del tenente Calley di Luigi Lunari
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I CONTRATTEMPI DEL TENENTE CALLEY è stata rappresentata al Piccolo Teatro di Milano nel 1974 con la regia di Enrico Damico e interpretazione di Oreste Rizzini nel ruolo di Calley. Pubblicata dall'editore Gremese e recentemente da Bulzoni, in un volume che raccoglie altre due commedie dello stesso autore: "Rosso profondo in punto di morte" e "Sotto un ponte, lungo un fiume..." Dopo l'allestimento del Piccolo Teatro, la commedia è stata rappresentata in tedesco al Nationaltheater di Mannheim.
Presentazione dell'autore:
La guerra in Iraq - con tutto il suo carattere tragico e farsesco - mi ha convinto a rispolverare una vecchia commedia che ho scritto nel 1974, e che ha per tema la guerra del Vietnam e la strage di My Lai. Vedo in effetti che molti giornali si sono rifatti a quella guerra e a quella strage come ad un'illuminante anticipazione di quello che sta succedendo ai giorni nostri, e vedo anche che la stessa Hollywood ha rispolverato films come Apocalypse Now, e Il Cacciatore. La commedia si intitola I CONTRATTEMPI DEL TENENTE CALLEY. Nel 1974 fu rappresentata al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Enrico Damico, e con un buon successo di critica e di pubblico: il titolo in quell'occasione era "Ma perché proprio a me?", poi corretto in quello citato in tutte miuscole. I CONTRATTEMPI DEL TENENTE CALLEY è stato pubblicato di recente dall'Editore Bulzoni di Roma in un volume dedicato al sottoscritto e comprendente altri testi miei. Secondo il parere - peraltro interessato - del sottoscritto, varrebbe la pena dargli un'occhiata e riproporlo sulla scena come testo di particolare e rinnovata attualità. Magari rinunciando a una qualche ennesima edizione della Locandiera, o dell'Avaro, o del Bugiardo, eccetera eccetera. Nient'altro da dire. Grazie per l'attenzione.
Luigi Lunari
L'ultima corsa di Fred di Mario Gelardi e Giuseppe Miale Di Mauro
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L’ULTIMA CORSA DI FRED ha debuttato il 21 gennaio 2003 al Theatre De Poche di Napoli. Prodotto da Vesuvioteatro e Theatre De Poche, con la regia di Peppe Miale, è interpretato da Massimo De Matteo con la musica scritta ed eseguita da Floriano Bocchino, i costumi di Alessandra Gaudioso, le scene di Luigi Ferrigno. Tuttora in tournèe è stato presentato a Benevento Città spettacolo e al Premio Troisi. E’ stato in cartellone tra gli alti, al Teatro Nuovo di Napoli, al Teatro Vascello di Roma, al Teatro dei Filodrammatici di Milano, al Teatro Comunale di Bellinzona.
Di cosa parla: 3 febbraio 1960, una Ford Thunderbird sfreccia per le strade di Roma alle sei e venti del mattino. La folle corsa di quell'auto verrà fermata da un camion con cui si scontrerà. Non occorre molto perché gli inconsapevoli spettatori di quella scena si rendano conto che, alla guida di quell'auto, c'è Fred Buscaglione.
Una vita ed un successo lampo, finita con altrettanta immediatezza, una vita tra il fumo dei locali italiani ed europei a interpretare il ruolo del taciturno e imprevedibile cantante da night, un ruolo che forse non gli apparteneva tanto. Una storia raccontata da un testimone casuale, di quella vita breve, appena quarant'anni, un fan qualunque come ce ne sono ancora oggi. E' il sogno del fan. Che non immagina ad occhi aperti ma agisce, fa, ripete fisicamente replica il mito. E nel mito specchia il proprio vissuto, rendendolo per quanto possibile parallelo alle vicissitudini dell'Altro. Altro che il Fan scruta, spia, insegue, ma non raggiunge mai. Anche perché l'Altro, infine, schizza via e la scelta da fare, stavolta, è diversa.
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Foto di Tommaso Le Pera
La stampa:
Giulio Baffi (La Repubblica)
Racconto appassionato di un uomo malato di nostalgia. Uno spettacolo intenso, segnato dalla forza delle canzoni non dimenticate di Buscaglione. Malinconia e ironia tra invenzione e ricordi. Bravo Massimo De Matteo in un teatro della non aggressione, per personaggi e differenti psicologie.
Conchita Sannino (La Repubblica)
Un magnetico Massimo De Matteo…
Roberta D’Agostino (Roma)
Un incredulo Massimo De Matteo comincia la sua prova con grande intensità emotiva dettata dal momento di grande nostalgia e commozione che prova il metronotte nel ricordare l’incidente che successe al suo Fred: giuste pause, ottima voce, momenti suggestivi in cui De Matteo interpreta alcuni dei brani più famosi di Buscaglione con grande bravura e sicurezza. La regia e il testo di questo spettacolo funzionano come un orologio alternando momenti poetico-struggenti a momenti di vera comicità.
Giuseppe Giorgio (Cronache di Napoli)
Grazie alla bella e incisiva interpretazione di De Matteo, che in scena si sdoppia proponendo attraverso un turbinio di ricordi i pensieri del metronotte testimone dell’incidente, il lavoro raggiunge degli apici di emotività eccezionali. Diretto abilmente da Peppe Miale, lo spettacolo piace soprattutto per il modo efficace di presentare la storia e per la ricercatezza con cui viene fotografata un’epoca.
Fabrizio Bancale (Napolipiù)
L’artista piemontese rivive grazie all’ispirato Massimo De Matteo. Uno spettacolo che non si limita a raccontare il successo di un grande musicista, ma che scava nell’animo di un uomo forse tanto distante dal personaggio che si era cucito addosso, ma sempre con ironia, come sarebbe piaciuto a Fred.
L'attentato di Gozzi Bonazzi Floridia Paolucci
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L’ATTENTATO è andato in scena al Teatro ITC di San Lazzaro e al Teatro delle Moline dal 21 al 25 gennaio e dal 28 gennaio al 1 febbraio 2004 con la produzione TNE/Moline in collaborazione con Teatro dell’Argine/ITC e con la consulenza dell’Istituto Provinciale della Resistenza di Bologna. Con Marinella Manicardi, Lorenzo Ansaloni, Micaela Casalboni, Andrea Gadda, Giovanni Malaguti, Carlo Massari. Scene e costumi Davide Amadei, musiche e documenti sonori Antonia Gozzi, regia di Luigi Gozzi.
Di cosa parla: A distanza di quasi ottant'anni l’attentato a Mussolini in pieno centro a Bologna il 31 ottobre 1926 resta un mistero. Chi fu a sparare? Un complotto? Fascisti dissidenti? Un attentatore isolato? Un 'giallo' tuttora irrisolto. All'istante un povero ragazzo, Anteo Zamboni, viene ferocemente linciato dai ‘seguaci’ di Mussolini, e pochi giorni dopo sono promulgate le leggi speciali che sanciscono l’instaurazione della dittatura.
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La stampa:
Elisa De Portu (CARTELLONE LO SPETTACOLO DELL’EMILIA ROMAGNA)
Luigi gozzi coltivava da tempo il desiderio di mettere in scena uno spettacolo che narrasse la storia di un personaggio controverso e dimenticato, come Anteo Zamboni. Ci riesce quest’anno, anche grazie alla recente pubblicazione di un libro di Brunella Dalla Casa che raccoglie documenti, resoconti e testimonianze su un avvenimento mai realmente chiarito e dai risvolti del tutto inquietanti. La mattina del 31 ottobre 1926 il giovane quindicenne Anteo Zamboni viene lapidato da una folla inferocita, con l’accusa di aver tentato di sparare al duce. Ma era davvero possibile che un giovane balilla, di famiglia anarco-fascista desiderasse attentare alla vita di Mussolini? Ma soprattutto, è certo che sia stato davvero lui a sparare il colpo e non piuttosto qualcun’altro? Dal 21 gennaio fino al 1 febbraio in prima Nazionale all’ITC di San Lazzaro è possibile assistere a l’Attentato, una produzione nata in collaborazione con il Teatro dell’Argine di Andrea Paolucci e un testo scritto a ben otto mani. A buttarsi nel progetto e a collaborare con Gozzi altri tre giovani drammaturghi che, a differenza del fondatore del TNE, il fascismo lo hanno studiato sui libri di scuola: si tratta dello stesso Paolucci, di Nicola Bonazzi e di Pietro Floridia. Un connubio tra giovani e “anziani” che ha prodotto un risultato interessante e intenso da cui emerge sopra le altre una bella interpretazione di Marinella Manicardi che impersona Viola, la madre smarrita di Anteo. Sulla scena, di Anteo, si avverte solo l’assenza. Fin dall’inizio sentiamo parlare di lui dalla madre, dal padre, dalla zia. Lo chiamano “patata” ed è solo un ragazzino che vuole diventare grande, un ragazzino che durante la parata vuole indossare gli abiti da balilla e scendere in piazza con gli altri. La sua mancanza è il filo rosso che lega tutti gli elementi sul palco e il motore di un’angoscia che è mancato ritorno, presentimento, violenza subita. E’ da questo momento che il fascismo irrompre tra le mura di via Fondazza, la casa di Mammolo Zamboni, che ne è completamente preso alla sprovvista. Il fascismo è ira, repressione, distruzione: una sedia che viene ripetutamente fatta a pezzi e un ragazzo che viene picchiato a sangue.
E poi la politica. E il dubbio. Il dubbio di un complotto, se è vero che non c’è un’inchiesta a chiarire la dinamica di un omicidio perpetrato da 20 squadristi e un duce che se la cava sempre. Da quel momento Mussolini è “l’uomo della provvidenza”, un uomo che si salva sempre, ma per farlo deve poter promulgare le leggi speciali, che sanciscono una feroce dittatura e l’abolizione di qualunque tipo di opposizione, dai partiti alla stampa. E lo fa per telefono, da Bologna, la sera stessa, mentre il corpo sfigurato di un giovane giace al comune, una famiglia cerca il suo ragazzo, una madre presagisce il pegio. L’Attentato è uno spettacolo da vedere. Ricco, umano, amaro ci rimanda i riflessi di un periodo storico che ha segnato l’Italia, per il senso di ingiustizia e la perdita di libertà che ha portato con sé. Non si tratta di uno spettacolo che parla di storia, ma la messa in scena di un’umanità. La famiglia è l’unico elemento a riempire il vuoto e le scene di terrore sono forti, così come è forte il rumore di uno sparo o di una sedia spaccata. E’ però uno spettacolo appena nato, che si avvale della partecipazione di un gruppo di attori di spessore, ma che come tutte le produzioni fresche, ha ancora un buon margine di miglioramento. Un lavoro, tuttavia, necessario ai giovani e agli “anziani”.
Davide Turrini (LIBERAZIONE)
Bologna, 31ottobre 1926, anniversario della marcia su Roma, Benito Mussolini dopo aver presieduto l’evento allo stadio comunale e partecipato ad un convegno scientifico all’Archiginnasio, si avvia sull’Alfa rossa verso la stazione ferroviaria. Migliaia di persone in delirio per il duce, che a busto scoperto rotea le pupille e mostra la volitiva mascella alla folla. Poi alle 17 e 40 in pieno centro, tra via Indipendenza e via Ugo Bassi, un colpo di pistola.
Anteo Zamboni un quindicenne, in camicia nera da balilla, viene immediatamente additato dalle centinaia di astanti: il linciaggio è furioso ed immediato. “Sono state undici pugnalate, quindici percosse, un morso, u colpo d’arma da fuoco, un tentativo di soffocamento” e il corpo sfigurato e senza vita di Zamboni, rimane sul selciato per oltre un’ora. Nei giorni successivi il consiglio dei ministri fascista promulgherà le famigerate leggi speciali dirette a “spezzare le reni” degli oppositori.
Questa in sintesi la verisone ufficiale, ma fu veramente Zamboni a sparare? O c’era a monte un complotto dei fascisti locali che spinsero Anteo ad agire? Domande insolute, risposte ipotetiche nello spettacolo teatrale diretto da Luigi Gozzi all’ITC di San Lazzaro di Savena, nel bolognese. Punti di vista che si incrociano (i due camerati, il vigile , il padre di Anteo, Mammolo, la madre Viola e la zia Danda) per una scarna e dinamica messa in scena attorno ad una sedia vuota che verrà ripetutamente fracassata in mille pezzi dal camerata più giovane. Spolverini, fez e pantaloni alla zuava neri, inserti sonori del ventennio che aleggiano minacciosi, i coni d’ombra di una storia presto archiviata ma che rivolge allo spettatore l’insolubilità della questione e insinua il dubbio. Emotivamente trascina Marinella Manicardi nella parte della madre affettuosa e svampita, sorta di narratrice cortese e continuamente esclusa dagli eventi materiali, ma pronta a donare dolcezza verso la giovane figura del figlio, stritolata dall’incombente necessità di un visibile, salvifico e girardiano capro espiatorio.
Stupiscono i due miliziani (Carlo Massari e Giovanni Malaguti) per l’intensità con cui rievocano con poche e concitate parole, con nervosi e secchi gesti, l’atmosfera oppressiva di una dittatura che non lasciò scampo al seppur minimo dissenso. Senza dimenticare l’apporto di Lorenzo Ansaloni, Micaela Casalboni e Andrea Gadda, il vigile, che introducendo il fatto che si verificherà nell’immaginario futuro (ripetiamo: solo le sedie che continuamente vengono rotte riamandano simbolicamente ad Anteo) afferma: una gran giornata dove si fa la storia, la storia più importante, che rimane, e la storia che passa, anzi che è già passata, perché non c’è memoria, perché non c’è mai stata”.
Un plauso anche a Luigi Gozzi (lui il fascismo da bambino l’ha vissuto ) che è riuscito a mettere in scena un progetto nato nel lontano 1976 e continuamente rimandato, soprattutto per mancanza di documentazione storica, poi prontamente riscritto e rielaborato dopo la pubblicazione del libro di Brunella Della Casa, Attentato al duce (Il Mulino). Infine, sarà per quella fretta lapidatoria con cui Anteo viene ucciso, per quella incerdibile e repentina condanna agli ipotetici fiancheggiatori (Mammolo, grande amico del gerarca locale Arpinati, e la Danda verranno condannati a 30 anni di galera) che le ultime parole di mamma Viola assumono un signifcato storico-politico che non lasciano spazio ad ulteriori verità: “C’è chi dice che erano d’accordo tutti, quelli che erano là, attorno al capo, al duce e così hanno approfittato di un bambino, e dopo lo hanno massacrato, perché loro sanno come si fa ad uccidere…loro lo sanno, e lo sanno fare, alla svelta”.
Massimo Marino (L’UNITA’)
Bologna 31 ottobre 1926, quattro anni dopo la marcia su Roma, Mussolini visita Bologna. All’angolo fra via Indipendenza e via Rizzoli, mentre passa il corteo fitto di gerarchi, fra ali di popolo festante e un servizio d’ordine di centinaia di uomini, echeggia uno sparo. Il duce è illeso, in compenso, “l’attentatore” viene massacrato dalle camicie nere a pugnalate e botte. La vittima si chiama Anteo Zamboni: è un ragazzo di quindici anni e non si saprà mai se sia stato davvero lui a sparare. Quello che è certo è che il duce chiama subito il ministro di polizia Rocco e accelera l’iter delle leggi speciali: di lì a pochi giorni in Italia non ci sranno più libertà. Gramsci finisce in prigione in meno di una settimana. A questo episodio sorico, un mistero, forse un complotto, diradato in parte solo due anni fa da un bel libro della storica Brunella Della Casa, è dedicato lo spettacolo “L’attentato”, in scena all’ITC di San Lazzaro fino all’1 febbraio (riposo il 26 e il 27, info 051.6270150). Il testo (pubblicato da Clueb) è stato scritto a otto mani da Luigi Gozzi (che firma anche la regia) e da Nicola Bonazzi, Pietro Floridia e Andrea Paolucci, per una coproduzione Teatro Nuova Edizione e Teatro dell’Argine, due strutture impegnate da anni in una drammaturgia rivolta a indagare la memoria storica e i conflitti del presente. In una scena vuota, fra due pedane con alcuni spettatori ai quali gli attori si rivolgono di tanto in tanto, viene ricostruito il fatto, per porre domamde ma soprattutto per raccontare la nascita di un regime che vuole controllare la società, le vite, perfino le coscienze, e usa ogni mezzo per farlo. Anteo non si vedrà: sarà solo una sedia vuota al centro della scena, più volte fatta a pezzi da due squadristi. Anche di Mussolini si ascolta solo la voce stentorea, arringante folle pronte ad acclamare. I personaggi sono il padre Mammolo, tipografo, anarchico e fascista, ma senza tessera, la cognata Danda, forse sua amante, la moglie Viola, una donna goffa e sperduta, un vigile urbano che conduce nei luoghi di una Bologna diversa da quella odierna, più piccola, meno benestante. E poi i due squadristi, interpretati come caricaturali maschere dai giovani Carlo Massari e Giovanni Malaguti. La storia procede per salti temporali e spazial, con gli attori che si distanziano dai personaggi per raccontare e tornano subito a immedesimarsi nelle situazioni. Risalta la figura della madre, una vittima familiare, una donna debole di mente, ma anche creataura che sembra provenire da un altro mondo, capace di sentire prima, più profondamente degli altri: una Marinella Manicardi attonita e intensa. Il fascino maggiore di questo lavoro essenziale, apparentemente semplice, sta nella sua capacità di aprire i vuti. Non è teatro di cronaca e neppure solo esercizio di memoria. Man mano che scorrono le scene, che i monologhi svelano pezzi di verità dei personaggi, è la dimensione umana di questi che assume consistenza. Mammolo (un bonario Lorenzo Ansaloni), un uomo nutrito di confuse ideologie, che vanta l’amicizia con il federale di Bologna, che sostanzialmente prova a sopravvivere; la tesa Danda di Micaela Casalboni, una popolana diffidente degli slanci dell’altro; Viola e il sensibile vigile Andrea Gadda, tutti disegnano un universo di gente comune travolta dalla storia, colpita negli affetti da un regime che puzza di morte. Questa danza di assenze, evocando Anteo come un fantasma e il suo come un mistero, materializza l’invadenza di un potere che spiana ogni differenza, travolgendo le persone, trasformando le città in deserti di paura e conformismo dove si può solo “credere obbedire combattere”. E qui, il pensiero, non può che ritornare ai nostri giorni.
Come è nata l’idea di ripescare questo fatto dimenticato?
Ci pensavo da tempo. Ma non avevo i mezzi d’indagine storica. Due anni fa è uscito il libro di Brunella Dalla Casa e mi ha fornito materiali e nuovi stimoli. La vicenda storica mi interessava per ragioni locali e personali, per ricordare il fascismo a Bologna e perché comparivano nomi che ricorrevano nella mia infanzia. Ma anche perché credo si debba fare teatro politico, in certe forme, oggi particolarmente.
Ha un valore emblematico la scelta di questo episodio?
Siamo di fronte a uno strano mistero. Probabilmente non ci fu nessun attentato: si trattò di una messa in scena per propiziare una stretta del regime e per emarginare i settori più estremisti dello stesso fascismo. Ma la sinistra mollò, fece di tutto per perdere. E’ vero anche che la destra picchiò duro. Oggi viviamo ancora in un clima di decisa repressione e speriamo la sinistra non dimostri l’insipienza di quei tempi. Il vostro testo, pubblicato dalla Clueb, gioca su più livelli lasciando assente Anteo, ma anche il duce. Mussolini è presente come voce: era un grande comunicatore del suo tempo (come qualcun altro, in modo diverso, oggi), usava tutti i mass media a disposizione, il megafono, la radio, i giornali, i comizi, il cinema. Noi ricostruiamo gli avvenimenti secondo una scansione temporale libera; la madre, per esempio, interpretata da Marinella Manicardi, è un personaggio isolato, che sembra vedere per prima i fatti. Questa libertà di piani ci consente anche di lasciare le ambiguità della storia. Eppure ogni riferimento è precisissimo: luoghi, nomi, personaggi.
Come ha lavorato con gli altri drammaturghi?
Sono giovani. Quello che apparteneva alla mia memoria, per loro era decisamente lontano. E’ stato bello trasmettere anche un’esperienza storica, politica, di vita. Lavorare su un fatto reale penso che sia, oggi, importante. Non solo perché in molti, specie nel cinema o nella migliore TV, tornano a indagare il passato. Ma anche perché credo faccia bene misurarsi con dati reali, sociali, civili. In questo modo il teatro può fuggire l’autoreferenzialità da cui spesso è tentato. Senza rinunciare al dato esistenziale, senza cadere nelle certezze: anzi, aprendo dubbi.
Gastone Ecchia (ARGENTO VIVO)
l regista teatrale Luigi Gozzi già nel 1976 voleva mettere in scena questa storia. Solo dopo l’uscita del libro di Brunella Dalla Casa (Attentato al duce – Le molte storie del caso Zamboni, Il Mulino editore, Bologna 2000- pagg. 291) e l’incontro con il TNE e Teatro dell’Argine il progetto si concretizza. Questi eventi storici sono messi in scena all’ITC di San Lazzaro di Savena (Bologna) e vengono organizzate rappresentazioni per le scuole.
La storia e la memoria sono un elemento fondamentale di partecipazione delle nuove generazioni. “Sono curiosa si assistere – ci dice Ornella dell’Istituto Tecnico Commerciale “Pier Crescenzi” – a questo fatto. Abbiamo un grande archivio a scuola che deve essere utilizzato per farci conoscere la nostra storia”. “E’ stata letta la sceneggiatura nella nostra scuola – ci fa presente Fabio delle Aldini – Oggi abbiamo la possibilità di vederla rappresentata a teatro”. Ai lati del palcoscenico alcuni ragazzi assistono alla rappresentazione, a simboleggiare le ali di folla che seguono la sfilata. Al centro una sedia vuota che rappresenta il protagonista, Anteo, che non c’è.
Il testo è pubblicato da "Clueb" nella collana "Simulazioni". Pagg 57 Tav. fuori testo. € 7,50